271. «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3). Il secondo canto del Servo di Jahwè riprende il tema del primo, sottolineando ulteriormente la sua predestinazione e ribadendo la sua missione riservata non solo ad Israele ma estesa a tutte le nazioni. Esse devono essere illuminate, con una predicazione nuova, frutto di una bocca simile ad una spada sguainata e ad una freccia appuntita. Chi parla è il servo stesso con un dire autobiografico che descrive la sua chiamata, la sua formazione, la difficoltà e la fatica nell’annuncio, la missione ricevuta di radunare Israele, fungendo da luce e mediatore di salvezza per tutta la terra. Il testo delinea come una percezione da parte del servo di stare a fare qualcosa di inutile, di lavorare invano e per nulla, con un senso di vuoto, di incapacità ed inettitudine, impari alla missione ricevuta. Ma pure è consapevole di essere stato chiamato, amato da Dio ed oggetto di manifestazione della sua gloria. Ogni risposta ed ogni servizio per il Regno di Dio richiede un abbandono fiducioso nelle mani di Dio, a compiere il volere e la missione affidata, pur consapevole della propria debolezza dinanzi ad un bene sommo, la salvezza che talora passa attraverso la propria incapacità. In questa maniera l’identità di “servo” diviene ancora più esplicativa e certa. Mentre l’interpretazione ebraica rifiutava l’idea di un Messia sofferente e morente, il Nuovo Testamento attribuisce a Gesù il titolo proprio di “servo” e lo cita nella letteratura evangelica ed epistolare. Ciò spiega anche il senso della solitudine e della paura che Cristo prova nel silenzio del Getsemani e col grido sulla croce. P. Angelo Sardone