«Il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti» (Am 3,7). Nel passaggio testuale col quale Amos racconta la sua vocazione, facendo riferimento all’elezione di Israele come esigenza di fedeltà, giustizia e responsabilità, il profeta afferma che se egli parla è perché Dio gliel’ha comandato. Viene così giustificato ogni intervento profetico, soprattutto quello che, ieri come oggi, può risultare duro o di rimprovero per il popolo. Se Dio parla il profeta non può fare altro che profetizzare! Questo compito che fu riservato nell’antichità ad un gruppo designato direttamente da Dio, continua nella storia attraverso uomini e donne illuminati dall’alto, che nel nome del Signore, qualunque ruolo occupino nella Chiesa e nella società, trasmettono la sua Parola e la testimoniano anche versando il proprio sangue. Oggi la Liturgia fa memoria del martire S. Ireneo vescovo di Lione (135-203), grande figura di apologista. Giunse in Gallia dove successe al novantenne Potito nella guida pastorale dell’intera regione. Con la parola e con gli scritti ammaestrò e difese la verità soprattutto con la sua grande opera di ben cinque libri, «Adversus Haereses» contro gli eretici. In essa, con l’eloquenza del teologo e l’arte del pastore, traspare il suo grande cuore intento a ricondurre all’ovile le pecore smarrite. Lo scorso 21 gennaio 2022 Papa Francesco lo ha dichiarato, primo martire nella storia del Cristianesimo, Dottore della Chiesa col titolo di «Doctor unitatis». La sua opera è ancóra interessante nella storia moderna e nella vita della Chiesa, dove, come si suol dire oggi, le pecore al sicuro nell’ovile non sono più 99 e quelle perdute non sono più una. Il suo nome è tutto un programma di vita cristiana: uomo di pace. P. Angelo Sardone