323. «Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto» (At 25,21). La controversia e l’odio dei Giudei nei confronti di Paolo toccano il massimo quando essi chiedono espressamente a Festo, Procuratore romano della Giudea, di giudicarlo e condannarlo inesorabilmente come detrattore dei valori della fede autentica e della Legge di Mosé. Paolo si trova a Cesarea e qui subisce un giudizio sommario da parte del Procuratore, che era una degna persona ed aveva fatto sforzi autentici per risolvere i conflitti tra i Giudei e Roma. È presente anche il re Agrippa e sua moglie Berenice che in un certo senso rimasero commossi. Le problematiche sono sempre le stesse, chiarissime ai Giudei ma incomprensibili da parte dei Romani che le giudicano semplicemente inerenti alla religione degli Ebrei. Non capendo fino in fondo il valore e l’oggetto delle accuse, i nobili giudicanti rimangono sospesi fino a quando Paolo con la solita sua fermezza si appella a Cesare perché, essendo cittadino romano, la sua causa sia riservata all’imperatore Augusto. Si tratta di una rivendicazione legittima ed una risposta chiara all’arroganza dei suoi conterranei mossi più da invidia che da ragioni propriamente di fede e di Legge mosaica. Si avvera così quanto lo Spirito andava suggerendo ed indicando all’Apostolo infaticabile per il suo zelo e la fedeltà al compito ministeriale ricevuto. Qui si assommano valori di fede e criteri giuridici che non devono mai mancare in qualsiasi forma di giudizio. P. Angelo Sardone.