«Egli fu per lei come un figlio e lo chiamò Mosè, dicendo: Io l’ho tratto dalle acque!» (Es 2,10). Il secondo libro della Bibbia è caratterizzato dalla dall’opera di Mosè, il cui nome è spiegato con una etimologia popolare proveniente da un frammento del nome originario egiziano “mesu” (è nato) e significa “tratto, salvato” dalle acque. Il libro dell’Esodo riporta i nomi dei genitori Amram e Jochebed (Es 6,20). Mosè fu salvato dalla furia omicida del faraone che aveva comandato agli Ebrei di gettare i figli maschi nel Nilo. La sua mamma l’aveva collocato in un cestello e adagiato nel fiume. Fu adottato dalla figlia del Faraone, la principessa d’Egitto che cercò per lui una nutrice ebrea, la stessa sua madre ivi portata dalla sorella che era rimasta sulle rive del Nilo a vedere che fine avrebbe fatto quel cestello col vispo e bel bambino che appena emergeva. Le vicende del racconto biblico sono molto simili alla leggenda di Argon di Sagade, re della Mesopotamia nel III Millennio a.C. Comunque siano andate le cose, dal momento che non esistono su Mosè notizie extrabibliche, rimane il fatto che le interferenze della storia sacra del popolo di Canaan con il territorio ed il popolo dell’Egitto avviate dal patriarca Giuseppe, continuano con Mosè. Fatto educare dalla mamma adottiva come scriba, egli acquisterà potere sugli Egiziani e salverà Israele dalla sofferta e dura cattività, costituendolo come popolo ed avviando la liberazione definitiva ed il cammino fino alle soglie della Terra promessa. P. Angelo Sardone