Mattutino di speranza
12 giugno 2020
Ogni giorno l’inizio della preghiera liturgica è caratterizzato da un gesto simbolico e da una invocazione. Mentre col dito si traccia un segno di croce sulla bocca si aggiunge: «Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode!». L’incisivo versetto del Salmo 50 diviene l’incipit di ogni preghiera che si innalza dal cuore e dalla bocca della creatura al Dio di ogni desiderio, perché sia Lui ad introdurla nel misterioso mondo del suo incontro. La preghiera vera, infatti, quella che esalta e loda il Signore per i suoi benefici, si inebria del suo mistero e permette all’uomo di inabissarsi in Lui, viene suscitata da Dio stesso ed a Lui indirizzata. Diversamente, come afferma il profeta Isaia, non è altro che un costrutto umano di chi si avvicina a Lui solo con la bocca mentre il suo cuore è lontano da Lui e la venerazione verso di Lui non è altro che un imparaticcio di precetti umani (Is 29,13). Un imparaticcio talora pieno solo di parole umane, imbarazzo, confusione, vergogna. Con gemiti inesprimibili lo Spirito Santo porta al cospetto del Signore ogni palpito del cuore, ogni desiderio, ogni pensiero, ogni nostra miseria. Con la preghiera si accarezza il cuore di quel Dio che sta alla porta del cuore dell’uomo e continua a bussare desiderando entrarvi, sedersi e cenare con chi ascolta la sua voce (Apc 3,20). Per introdursi nella preghiera ed incontrare Dio davvero, bisogna prima di tutto entrare nella buia e fredda caverna del monte, una sorta di anticamera della luce di Dio e fermarsi sull’orlo invalicabile del suo mistero impenetrabile. Qui si sosta per riposare nell’incognita di quel buio che richiama il cuore umano popolato talora da confusione, ostacoli, scelte azzardate, scombussolamento, rifiuto pratico di Dio. Dopo la notte passata nel dormiveglia del ripensamento e dell’esame serio e profondo della propria coscienza, Dio stesso invita ad uscire dall’isolamento, dal buio, dalla paura, dell’incertezza, dalla consapevolezza della gravità del peccato e portarsi prima all’ingresso della caverna e poi sul monte per fermarsi alla Sua presenza. Con modi e moti diversi Dio preannuncia il suo passaggio e la sua presenza: il vento, il terremoto, il fuoco. In essi non c’è Dio, ci siamo noi. Questi elementi tumultuosi della natura richiamano lo stato di fatto dell’anima umana scoraggiata ed auto-vilipesa: la veemenza delle passioni ed il turbinio della coscienza, lo sconquasso determinato dal peccato con la confusione e la paura, le macerie che cadono addosso e che ingombrano la strada della propria realizzazione, il fuoco travolgente della passione ingannatrice che brucia, consuma la coscienza e spazza via la semplicità, macchiando la veste bianca dell’innocenza e della virtù. Si dispiega così ai nostri occhi la responsabilità personale dinanzi alla grandezza della bontà di Dio e del suo generoso amore. Rimanendo all’ingresso della caverna e lasciando alle spalle il buio della notte della tribolazione, del peccato, della perversione, finalmente si coglie il passaggio delicatissimo di Dio nella brezza leggera del mattino che accarezza il viso e penetra nell’animo. Noi ci copriamo il viso sconcertato e pieno di vergogna con il mantello dei buoni propositi, del desiderio innato del bene offuscato dalla ricerca di un amore compensativo ed esaltante, un mantello a volte lacerato dagli strappi consumati di rifiuto del bene, pieno di polvere del suolo e madido di sudore, sporco di sangue sgorgato dalle ferite visibili e nascoste del corpo provocate da noi o da altri. Il Signore allora si ferma; Lui che rispetta la nostra libertà e finanche la scelta sciagurata di respingerLo per seguire le nostre vie, i nostri pensieri i nostri frustranti desideri, viene a noi con la sua voce delicata e suadente e continua a chiedere: «Che fai tu qui?». Noi riusciamo appena a balbettare con molto imbarazzo: «Voglio riempirmi del tuo zelo, perché ho abbandonato la tua alleanza, sono venuto meno agli impegni del mio Battesimo, ho demolito dentro e fuori di me i sacri altari dell’innocenza, della purezza, della mia dignità; ho ucciso tante volte me stesso con la superbia, l’arroganza, la sopraffazione. Mi sono tolto ed ho anche tolto la vita. Ora sono rimasto solo e qualcuno con colpo maldestro cerca ancora di togliermi la vita!». Nell’intreccio di questa insolita preghiera nella quale Dio per primo cerca noi come interlocutori di amore, Egli risponde anche a ciò che non abbiamo il coraggio di dirgli: «Su, abbi pazienza con te, come io ce l’ho avuta e continuo ad averla nei tuoi confronti. Non avere paura e non temere nonostante tutto quello che puoi aver detto e fatto. Smettila di farti del male con le ingannevoli illusioni. Ritorna sui tuoi passi verso il deserto del tuo essere e lì troverai non più la steppa, ma un giardino nel quale dovrai cominciare o continuare a coltivare quei frutti che da sempre ho seminato in te: la fede in me, la bontà, la bellezza, l’intelligenza, il buonsenso, il desiderio di felicità, la tua piena realizzazione. Per ora tocca a te. Giungerà poi il momento quando queste cose dovrai comunicarle ad altri. Ora comincia da te. E noi gli rispondiamo: «Nunc coepi!», «Signore, ogni giorno apro a te il mio cuore e la mia vita. Adesso io voglio ricominciare. Adesso io incomincio» P. Angelo Sardone