«La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita» (Is 5,6). Il capitolo V del libro del primo Isaia, si caratterizza come «canto per la vigna», una composizione poetica con risvolti storici e teologici di grande valore. Spesso la letteratura profetica ha simili espressioni. Il linguaggio metaforico adoperato, richiama la realtà storica del popolo di Israele rappresentato come una vigna di viti pregiate, una piantagione preferita posseduta da un padrone, Dio, dissodata, sgombra di sassi. Tutto era pronto per la raccolta, compreso un tino, il risultato però non fu l’uva ma acini acerbi. Perplesso dinanzi a questa delusione il padrone interroga gli abitanti di Gerusalemme sul da farsi e conclude col proposito di eliminare la siepe protettiva, demolire il muro di cinta e renderla pascolo, oggetto di calpestìo, fino a diventare un deserto ricco di rovi e pruni, senza pioggia alcuna. Alla giustizia fa eco lo spargimento di sangue, alla rettitudine, le grida degli oppressi. Un canto desolato, quasi un lamento vuole richiamare la coscienza del popolo, la vera ed eletta vigna, trattata con ogni attenzione e dotata di ogni privilegio protettivo, ma manifestatasi ingrata, repellente al volere di Dio e facile preda delle malattie che la rendono infruttuosa. La storia si ripete ogni volta che alle attenzioni di Dio, frutto di amore e di predilezione, corrisponde da parte degli uomini indifferenza, insubordinazione e rifiuto. I frutti acerbi e grami sono il risultato di questo obbrobrio, conseguenza ineluttabile del parossismo egoistico e superbo di chi pensa di poter fare a meno di Dio, della sua potenza, della sua premura paterna. P. Angelo Sardone