«Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7,18). Il profeta Michea, di cui si conosce poco, annunzia con sicurezza la sventura. Di origine campagnola, svolse il suo ministero prima e dopo il 721, data storica che segna la fine del regno di Israele con la distruzione della capitale, Samaria. Alla maniera del profeta Amos, con una parola ferma egli fustiga le diverse categorie della società, dai ricchi sfrenati agli usurai, dai commercianti fraudolenti, ai sacerdoti e profeti cupidi. Il castigo di Dio incombe sul popolo che non risponde al suo amore. Nonostante ciò egli nutre la speranza che Dio non abbandonerà il suo popolo. La prova certa è il celebre annunzio messianico: da Betlemme di Efrata nascerà il Salvatore. Il suo libro si conclude con un salmo, come spesso accade nella letteratura profetica, di invocazione del perdono divino e di professione di fede in Dio che toglie l’iniquità e perdona il peccato a coloro che hanno ereditato la promessa e la grazia. Egli si muove a compassione dei suoi figli ed è sempre disposto al perdono e, secondo l’iperbolica espressione profetica, getta in fondo al mare tutti i nostri peccati. Siamo davanti e tocchiamo l’assoluta maestà del Signore che è grande nell’amore in forza dell’assoluta fedeltà con la quale si rapporta alle sue deboli creature. Questi elementi sorreggono nella naturale difficoltà di cedere dinanzi al male e di non farcela, magari col dubbio che il Signore non possa o non voglia perdonare a causa della meschinità umana e del peso rilevante della colpa dell’uomo. La Parola toglie via ogni dubbio ed afferma la certezza misericordiosa del suo salvifico intervento. P. Angelo Sardone