«Ecco il nostro Dio; è il Signore in cui abbiamo sperato» (Is 25,9). Gli oracoli messianici del profeta Isaia diventano incalzanti. Riprendendo temi sviluppati da altri profeti anteriori, egli descrive l’afflusso dei popoli della terra a Gerusalemme per la celebrazione di un sontuoso e gustoso banchetto. Questa idea diverrà ricorrente nel Giudaismo prima e poi nel Cristianesimo. Velo e coltre di vergogna saranno strappati, la morte sarà eliminata, le lagrime asciugate da ogni volto, la condizione disonorevole annientata. Allora tutti i popoli grideranno all’evento: “questo è il nostro Dio e Signore nel quale è stata riposta tutta la speranza”. Alla poesia si alterna la teologia fine e delicata che fa guardare universalmente a Gerusalemme, il punto di riferimento religioso e teocratico del popolo di Israele. Dio manifesterà la sua potenza attraverso un bambino inerme ed indifeso; il suo amore che scuote la terra attraverso il vagito di un neonato; la sua gloria attraverso la povertà di un minuscolo villaggio, Betlemme, una coppia di coniugi, Giuseppe e Maria, la nascita in una stalla. Per non ridurre il Natale a semplice poesia con il corredo delle luci, le nenie, l’articolato e colorito menù, i regali, occorre tendere le orecchie ad accogliere le sollecitazioni profetiche e liturgiche che ogni giorno attestano la verità sconvolgente di un Dio che ama, provvede ai suoi figli e che li salva con la mediazione del Figlio suo che diventa Figlio dell’uomo. L’Avvento sarà pieno nella misura in cui ci si apre all’evento, di cui “l’Ecco” è la chiave introduttiva. P. Angelo Sardone