«Dio non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7,18). Un’ardente e fiduciosa preghiera, sulla falsa riga di un salmo, chiude il minuscolo libro di Michea, con un’accorata invocazione del perdono divino. La speranza domina il testo che riconosce in Dio il potere della restaurazione di Gerusalemme che accoglierà israeliti dispersi e pagani convertiti. Rientrati dall’esilio i Giudei vivono in un territorio povero e proprio in questa situazione di precarietà riconoscono la bontà e la misericordia di Dio che perdona il peccato, non conserva l’ira per sempre, è gioioso nell’usare misericordia e nel manifestare la grandezza del suo amore. L’israelita, come il cristiano di ogni tempo, sa riconoscere questa prerogativa. Ha piena coscienza che nonostante la freddezza umana e la facile infedeltà verso i precetti ed i comandi divini, Dio ritorna sui suoi passi di benevolenza, calpesta le colpe e getta in mare tutti i peccati commessi dall’uomo per la sua fragilità dovuta al peccato. Dio è fedele sempre: i suoi interventi di misericordia sono chiari e coinvolgenti. In un tempo come il nostro dove tutto è labile, espressioni di questo genere sono un forte impulso all’abbandono nelle mani e nel cuore di un Dio che ama il suo popolo e fa sempre di tutto per andargli incontro, inducendo ciascuno a ritornare sui propri passi, a riconoscere le proprie colpe. Garantisce inoltre l’oblio del peccato umano, nel segno del gettare ogni cosa nella profondità del mare, dove nulla si può vedere e raggiungere. È questa la fede che guarda il Dio di ogni grazia: Egli con l’architrave della sua misericordia regge la Chiesa e la vita dei credenti. P. Angelo Sardone