«La permanenza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni» (Es 12,40). Questa annotazione si pone quasi a conclusione del capitolo 12 dell’Esodo, un testo fondamentale dell’intera Sacra Scrittura, dedicato alla “Pasqua” con le relative prescrizioni dettate da Dio a Mosè, il racconto dell’ultima piaga della morte dei primogeniti, la spoliazione degli Egiziani e la partenza del popolo di Israele dall’Egitto. La pasqua era un’antica festa di primavera dei pastori nomadi che solevano sporcare la parte alta della tenda con il sangue degli agnelli: il gesto aveva una funzione apotropaica, cioè tenere lontano il “mashit” lo sterminatore dal gregge. Molto probabilmente il popolo d’Israele la conosceva ed è verosimilmente la “festa di Jahwé” che Mosè chiede al faraone il permesso di andare a celebrare. L’uscita dall’Egitto coincise con la celebrazione della festa e divenne un vero e proprio memoriale. In effetti in questa maniera l’Esodo, secondo una logica conclusione degli studiosi, è un abbozzo della nostra redenzione. Gli Israeliti rimasero sotto gli Egiziani per 430 anni. Gli esegeti affermano che tale periodo anni non è riferito solamente alla dimora degli Ebrei in Egitto. La traduzione greca della Bibbia, detta dei “Settanta” aggiunge al paese d’Egitto il paese di Canaan, come anche il Pentateuco samaritano annota “nel paese di Canaan e nel paese d’Egitto”. Il periodo di 430 anni abbraccia quindi sia la dimora di Abramo in Canaan che quella degli Ebrei in Egitto. Lo stesso S. Paolo afferma che la Legge venne 430 anni dopo le promesse fatte ad Abramo (Gal 3,17). La ricchezza storica diviene la ricchezza teologica che richiede lettura, interpretazione, applicazione. P. Angelo Sardone