«I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,6).Uno dei testi più citati del Vecchio Testamento, è il Libro di Giobbe, il capolavoro della letteratura sapienziale. Consiste in 42 capitoli nei quali, al racconto in prosa dei primi e dell’epilogo, si alternano pagine mirabili in poesia, di dialogo e discorsi di Giobbe, dei suoi tre interlocutori, dello stesso Jahwé. Fiumi di inchiostro sono stati adoperati nel corso della storia per commentare questo libro che vede protagonista Giobbe nelle sue disavventure umane, nelle sue profonde riflessioni, nella sua pazienza e nel conclusivo felice epilogo. Appartenente probabilmente all’epoca patriarcale, è considerato dalla Tradizione il grande giusto che rimane fedele a Dio in una prova straordinaria. «Sublime libro! Pieno di grande e magnanimo dolore! Parla con Dio senza superstizione, e con le proprie sciagure senza bassezza!», lo definiva il poeta Ugo Foscolo. Contemplazione e malinconia pervadono la sua esistenza, rappresentata come un soffio e i giorni della vita veloci come la spola nelle mani del tessitore, col filo della speranza che sta per mancare e la vita che sta per finire. Risplendenti di alta poesia biblica e letteraria questi elementi si trovano sovente nella vita umana, per coloro che portano il peso della disavventura, dell’incognita misteriosa della sofferenza senza tregua, del diverbio continuo tra ciò che è la vita con ciò che riserva. Giobbe, pur chiedendo a Dio di rispondergli, adoperando anche termini forti e duri, ascoltando la Sua voce, troverà conforto e passerà dal «sentito dire» alla realtà concreta del «vederLo», da una fede accolta ad una fede vissuta. P. Angelo Sardone