«Posso anche morire questa volta, dopo aver visto la tua faccia, perché sei ancora vivo» (Gen 46,30). Giuseppe, fattosi riconoscere dai fratelli, li rimandò a Canaan per prendere il padre Giacobbe e condurlo in Egitto. Con il favore del faraone li dotò di ogni bene e li rimandò nella loro patria esortandoli a non litigare tra loro durante il viaggio. Sorpreso e nello stesso tempo contento che suo figlio era vivo, Giacobbe prima rimase freddo, poi si rianimò. Raccolse quindi tutte le persone della sua famiglia, figli e nipoti, sessantasei in tutto e si mosse per andare in Egitto. A Bersabea, quasi ai confini, ebbe una visione. Il Signore lo rassicurò esortandolo a non temere e ad andare in Egitto dove avrebbe chiuso gli occhi dopo aver visto Giuseppe. Avvertito da suo fratello Giuda, Giuseppe attaccò il suo carro per andare incontro al padre. Appena vide suo padre gli si gettò al collo e pianse a dirotto stretto a lui. Una grande emozione l’aveva sorpreso, molto simile a quella che tanti anni prima Giacobbe aveva provato alla notizia della sua presunta morte ad opera di una bestia feroce. Le tenere espressioni del grande patriarca inneggiano alla vita del figlio e attestano la vicinanza della sua morte perché il suo desiderio di rivederlo vivo si è adempiuto. In un certo senso anticipano quelle in un altro vegliardo, Simeone, quando avrà tra le braccia Gesù al tempio. Sono elementi che toccano le corde più intime del cuore umano soprattutto perché si tratta del ricongiungimento di un padre ormai anziano e di un figlio divenuto seconda autorità di Egitto ritenuto fino allora morto. Dio ha permesso tutto questo per un fine straordinario di ripartenza con l’avvento di Mosè. P. Angelo Sardone