Mattutino di speranza
Giovedì 21 maggio 2020
La crisi delle vocazioni sacerdotali e religiose è la manifestazione di una più profonda crisi di fede. L’adagio non è nuovo. Particolarmente in questi ultimi anni si trascina nella Chiesa e nella società una grande preoccupazione ed una accurata riflessione su questo grave problema. Non bastano la convegnistica, le ricerche sociologiche, le analisi accurate degli psicologi, le esperienze nuove e le soluzioni propinate dagli “esperti nel campo” come possibili, ma che si sono rivelate claudicanti; occorre guardare il fenomeno con occhi della fede e di un concreto e serio realismo. I tempi moderni hanno favorito lo sviluppo della comprensione della realtà della vocazione, passando da un concetto relegato solo ed esclusivamente al sacerdozio ed alla vita religiosa, ad uno più ampio riferito a tutti i battezzati, in forza della loro configurazione a Cristo, re, sacerdote e profeta, ed alla prima e fondamentale vocazione del cristiano, la santità. Tutti siamo chiamati, dunque, a realizzare un progetto di amore di Dio che passa attraverso le diverse scelte che scaturiscono proprio dal Battesimo e dalla maturità della vita cristiana. Tutti siamo parte del pensiero di Dio frammentato nella personalità di ciascuno che rimane unico, irripetibile ed indispensabile a suoi occhi, come l’anello di una grande catena. Tutti avvolti dentro un “mistero” di amore e di fede che lascia sempre perplessi e pensosi dinanzi ai diversi destini che Dio riserva per ciascuno. Allo sviluppo della conoscenza teorica e scientifica del mistero della vocazione, sembra però non corrispondere in maniera ancora più profonda e leale, concreta e decisa, la pratica della disponibilità, soprattutto da parte dei giovani e delle famiglie, all’azione di Dio che in forza del suo amore, continua a chiamare ed a mandare. La realizzazione piena del Regno di Dio sulla terra, dopo il suo “tutto è compiuto” proclamato dal trono della croce, Gesù l’ha voluta affidare ai 12 apostoli caratterizzati già nella loro identità nominale come “mandati, inviati”. Le regole della missione apostolica sono racchiuse nel tratto evangelico di S. Luca agli inizi del 10° capitolo. Sono basate sulla fiducia ed abbandono alla Provvidenza di Dio ed anche sul dovere dell’annunzio. Ma per troppo tempo, 19 secoli circa, non è stato tenuto in grande considerazione ed è rimasto pressoché nascosto se non invisibile nel Vangelo, il divino comando di Gesù che lega il dono e la presenza degli “operai del Vangelo” fondamentalmente alla preghiera. Per questo il Signore ha suscitato nel profondo sud dell’Italia, un uomo, un sacerdote, Annibale Maria Di Francia che ha intuito la necessità della preghiera per le vocazioni e ne è diventato “apostolo”. Il tramite dell’intuizione e la forza vitale del suo impegno apostolico è stato Gesù Eucaristico contemplato, adorato e supplicato quando aveva appena 17 anni. Poi tutto si è svolto in un cammino duro e faticoso, talora anche “scabrosissimo” lungo i sentieri dell’incomprensione, della difficoltà di dover sempre ricominciare, degli stenti e fatiche in un ambiente ed un terreno assolutamente povero fecondato dalle lagrime, dagli affanni e spasimi. E questo per tutta una intera esistenza, movendo cielo e terra. Oggi la preghiera per le vocazioni supera la dimensione strutturale delle due Congregazioni da lui fondate, le Suore Figlie del Divino Zelo ed i Rogazionisti del Cuore di Gesù, perché appartiene a buon diritto alla Chiesa intera che se ne fa interprete e propulsore con la Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni, l’animazione vocazionale e la diffusa sensibilità nel popolo di Dio. Ma quanto cammino c’è ancora da fare, riscoprendo i valori fondamentali connessi da Gesù stesso alla preghiera in quanto tale, che fa rendere disponibili alla chiamata di Dio uomini e donne che donino a Lui la freschezza della loro giovinezza e bellezza e non gli scampoli dell’età e della vita, passando talora attraverso molteplici esperienze di eterno discernimento e sbavature pseudo-spirituali. Negli anni settanta sulle riviste cattoliche e non, girava uno slogan “Essere prete è bello”, collegato col viso sorridente di un giovane, il bello di turno, accattivante, quasi da modello. Non è la bellezza fisica ad attrarre o l’illusione di una vita senza pensieri, senza il peso di una famiglia o di un lavoro cui pensare, mistificata in chissà quale mellifluo rapporto con un Gesù mitizzato e spesso non evangelico, inquadrata nel “sostentamento clero” o nella sicurezza economica di un convento o di un monastero. Ciò che attrae e deve attrarre è il volto di Cristo ed il suo annientamento per le anime, lo spendersi generoso per un ideale di amore vero e profondo per l’umanità espressa come “pecore” che il Signore padrone della messe e pastore eterno delle anime, affida fiduciosamente alla povertà di un uomo, dotandolo di compassione e tenerezza che supera la paura umana della inettitudine, della solitudine, dell’incomprensione, del rigetto. Se si supera questo ostacolo gettandosi coraggiosamente in un itinerario di fede più matura e se si attua il comando di Gesù, come diceva il cardinale Fernando Cento “le vocazioni verranno”. Questo io personalmente sperimento da quarant’anni, da quando cioè sono prete, questo mi sforzo di annunziare e testimoniare. P. Angelo Sardone