«Se uno volesse disputare con Dio, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille» (Gb 9,3). Nel primo ciclo di discorsi che Giobbe fa coi suoi tre amici giunti da lui per consolarlo, dopo aver sostato in silenzio per sette giorni e sette notti, si affrontano problematiche di alto valore morale. Una di queste fa riferimento alla giustizia divina che è superiore allo stesso diritto. Dinanzi a Dio tutte le ragioni umane hanno un limite e la richiesta di chiarimenti non sempre è appagata perché con Lui ci si pone in atteggiamento di ascolto e non in contrappunto dialogico ed apologetico. Dio detiene ogni potere e con esso guida l’intero universo. Con Dio il rapporto non è come tra simili: ogni tentativo di uguaglianza è assolutamente impari. Questo tono accusatorio da parte di Giobbe non è altro che la manifestazione a voce alta del desiderio non solo di un confronto, ma anche e soprattutto della ricerca di una ragione plausibile che spieghi il suo comportamento, gli eventi e le situazioni umane a volte molto ingarbugliate. In fondo ciò non è altro che il desiderio di aprirsi ad un dialogo, ma dal momento che la distanza è infinita rischia di falsare un atteggiamento che da remissivo si traduce in alterato. Ma non è così perché il tono quasi accusatorio, si rivela una richiesta di comprensione e di aiuto, quasi una preghiera. Occorre comunque passare da un atteggiamento provocante alla ricerca di una logica, ad uno di ascolto ed accoglienza del suo mistero che rimane comunque incomprensibile. Una fede autentica tante volte deve andare oltre una logica propriamente umana fatta di conseguenze ed accogliere in fondo un Dio che ama ma che, come affermava il teologo svizzero protestante Karl Barth è «il totalmente altro». P. Angelo Sardone