Sara partorirà un figlio

«Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco» (Gen 17,19).

Dopo aver confermato la sua alleanza con Abram, il Signore gli chiede di camminare in maniera integra, cambia il nome a lui ed alla moglie ad indicare l’inizio di una nuova identità di vita e gli dà rassicurazioni chiare e vincolanti per la sua vocazione e missione. È umanamente difficile che un uomo a cento anni diventi padre ed una donna a novant’anni partorisca un figlio. Ma a Dio tutto è possibile e questa certezza si concretizza nella storia che vedrà Abramo padre di una moltitudine. La sterilità ed il desiderio di diventare madre da parte di Sara viene momentaneamente compensata dalla nascita di Ismaele, figlio di Abramo, dalla sua schiava Agar. Ma ora l’intervento del Signore è risolutorio ai fini della discendenza annunziata come cosa strepitosa e fuori di ogni norma: numerosa quanto le stelle del cielo e la sabbia del mare. In Isacco che nascerà da Sara, saranno confermate le promesse di Dio con una alleanza perenne per essere in assoluto il suo Dio. La circoncisione di ogni maschio sarà l’espressione visibile dell’alleanza. Il rito di iniziazione che ha un significato religioso o magico a seconda delle credenze dei popoli dell’antichità, diviene il segno di un patto e di una catena vincolante di Abramo con Dio. Il dono di un figlio a Sara, pure in una situazione di assoluta impossibilità per la mente e l’azione umana, è il compenso che Dio dà al desiderio più profondo della donna, espressione della sua primaria vocazione: la maternità. Dio, dispensatore della vita, sa come e quando essa deve annidarsi nel grembo di una donna che Lui rende fecondo. P. Angelo Sardone

Natività di S. Giovanni Battista

«Fin dal grembo di mia madre Dio ha pronunciato il mio nome» (Is 49,1). L’odierna solennità della natività di S. Giovanni Battista, rientra nella dinamica liturgica che, come e dopo Gesù e Maria, dà rilievo alla sua nascita in terra e si colloca a tre mesi esatti dall’Incarnazione del Verbo di Dio nel grembo della fanciulla di Nazaret. Di nessun’altra creatura, infatti, si celebra tale evento: esso sottolinea il legame fondamentale che esiste con Gesù nel piano di salvezza. Giovanni è un uomo straordinario predestinato da Dio come Precursore di Cristo e preordinato a tale missione già prima della sua nascita. Le note evangeliche riportate da S. Luca con rigorosa analogia a quelle del Salvatore, anticipano l’avvenimento salvifico di Cristo e riproducono l’annunzio della nascita di Giovanni al padre Zaccaria, il conseguente suo mutismo a causa dell’incredulità, la visita di Maria e l’incontro con Elisabetta. La nascita del bimbo viene segnata dall’imposizione a sorpresa del nome Giovanni, che in ebraico significa “Dio è benigno”. Viene così sottolineata l’iniziativa di Dio con un dono grande concesso a due genitori avanti nell’età e ad una donna, Elisabetta, peraltro sterile. L’avvenimento desta stupore in tutti coloro che ne sentono parlare e costituisce un segno manifestativo della grandezza di Dio e della sua fedeltà al compimento del progetto di salvezza. Dio guiderà e proteggerà la vita di questo bambino. Zaccaria sotto l’azione dello Spirito Santo pronunzia il meraviglioso cantico del “Benedetto” esaltando il Signore che visita e redime il suo popolo ed il compito profetico del bambino, precursore del Signore che sarà luce e guida del popolo sulla via della pace. In Giovanni si avvera l’antica credenza giudaica di vedere reincarnata la figura del grande profeta Elia. Auguri a tutti coloro che portano il nome di Giovanni o Giovanna e simili. P. Angelo Sardone

La vocazione di Abramo

«Vattene dalla tua terra. Farò di te una grande nazione. Renderò grande il tuo nome» (Gen 12,1-2). La narrazione biblica di Abramo “padre di una moltitudine”, comincia già nella conclusione del capitolo 11 della Genesi, quando viene presentata la discendenza di Sem, figlio di Noè. Insieme con suo padre Terach è sceso da Ur dei Caldei in Mesopotamia, per andare verso la terra di Canaan, tra l’Egitto e la Siria e si è fermato a Carran. Qui il Signore, dopo il lungo silenzio a seguito del diluvio, gli parla. Con lui comincia la rivelazione biblica. Il testo è secco e senza fronzoli: «Vattene dalla tua terra, dalla casa di tuo padre. Ti indicherò io stesso il paese dove devi andare!». Gli viene ingiunto di rompere i legami di carne e andare verso un paese sconosciuto portando con sé sua moglie Sara, suo nipote Lot ed i loro beni. La prospettiva è semplicemente di fede: Abramo non sa dove va, cosa gli accadrà; si fida delle indicazioni di Dio e della duplice promessa: diventare una grande nazione, pur non avendo discendenza, ed avere un nome grande. La storia successiva glielo riconoscerà come «padre nella fede» per tutti coloro che nella stessa fede si riconosceranno suoi figli. Ciò avviene intorno al 1850 a.C. La storia di ogni vocazione e di ogni risposta alla chiamata di Dio va letta in filigrana analogamente alla storia di Abramo: il comando del Signore richiede una fede matura sia dal punto di vista umano che spirituale. Non è sempre facile entrare nell’ottica della fede, fino a quando non ci si abbandona completamente all’amore di Dio ed alla sua volontà, non di potenza, ma di Provvidenza. P. Angelo Sardone

L’unica onnipotenza è di Dio

«Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde» (Gb 38,11). Vi è una diffusa convinzione di sapere tutto e di poter fare tutto. La letteratura biblica, didattico-sapienziale, in particolare col libro e col mondo di Giobbe, ridimensiona questo parossismo intellettuale soprattutto quando si pensa di riferire queste categorie anche alla conoscenza ed alla comprensione di Dio e del mondo laddove sembra che Dio sia assente o addirittura perseguita e fa soffrire le creature. Tutti i tentativi possono infrangersi contro un muro invalicabile. Alle provocazioni umane risponde ironicamente lo stesso Dio partendo dall’immagine della terra e del mare. Prende quasi per mano Giobbe e lo porta a visitare l’universo contemplando la terra ed il mare e, come punzecchiandolo, lo invita a riflettere se con Dio che creava c’era l’uomo; se al mare che usciva impetuoso come da un seno materno, quando era rivestito di nubi e fasciato con una nuvola, quando gli era assegnato il limite, quando gli ingiungeva di non andare oltre il confine segnato, c’era la creatura umana. Le pretese degli stolti e degli orgogliosi ignoranti di ogni tempo oltre che sulle barriere di Dio vanno ad infrangersi su quelle di uomini saggi e pazienti che tante volte preferiscono il silenzio dinanzi ad affettate e pseudo spirituali affermazioni che infastidiscono solamente. Non si può pretendere che il Signore intervenga e risponda direttamente a chi si mette a tu per tu con Lui e parlare con termini di rimprovero effettivo anche se con palese ironia; a meno che non è convinti che dietro un’autorità superiore ci sia effettivamente Dio. P. Angelo Sardone

Il vanto della debolezza

«Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze» (2Cor 12,5). La consapevolezza umile e sincera, porta S. Paolo a non negare la reale situazione di privilegio a lui riservata da Cristo per il suo apostolato. Pur di difendersi e non lasciarsi mettere sotto i piedi da presunti apostoli e dai Corinti che vanno facilmente dietro a certe affermazioni di sola convenienza, Egli enumera, non senza vergogna, le rivelazioni e le visioni e non ultimo il privilegio che il Signore Gesù gli ha riservato: è stato rapito fino al terzo cielo e ha udito cose che non si possono pronunziare. Per ben due volte richiama poi l’assoluto oggetto del suo vanto: le sue debolezze, evidenziando il fatto che proprio per non farlo montare in superbia Gesù ha permesso che gli fosse conficcata nella carne una spina e che un inviato di Satana lo schiaffeggiasse. Si suppone che si tratta di tentazioni della carne contro la castità, di persecuzioni subite, di qualche malattia come le febbri malariche. Nella mentalità ebraica queste cose erano dovute ad un intervento diretto del diavolo. Umiltà ed abnegazione non possono non fare i conti con l’assoluta realtà dei fatti che sono enormemente superiori alle debolezze vantate. La grazia di Dio è più grande di qualsiasi cosa e si manifesta in forma piena proprio nella debolezza che rende davvero forti. Questa contraddizione terminologica è un nuovo modo di intendere il rapporto concreto e vero col Signore che per mezzo della sua grazia santifica, orienta, sostiene, vivifica. Quanto c’è da apprendere da parte di tutti, religiosi e laici, piccoli e grandi per realizzare un autentico cammino di sequela del Signore! P. Angelo Sardone

Il discorso insensato

«Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io» (2Cor 11,18). Nella sua apologia, soprattutto per chiarire le cose e non lasciarsi sopraffare da atteggiamenti provocatori ed esuberanti dei cristiani di Corinto, l’apostolo Paolo, a suo dire, fa “un discorso insensato”. Dice la verità del suo essere e della sua missione che non è di vanto, ma constatazione reale del suo operato alla luce della Parola di Dio. La sua autopresentazione non tradisce affatto la certezza di essere nelle mani di Dio semplicemente uno strumento fragile. Anche se con riluttanza, Egli prova a difendersi vantandosi umanamente, quasi con una sorta di esibizione ma solo per non lasciarsi denigrare dal vanto di millantati sapienti. Con un dire ironico misto ad amarezza, parla ai Corinzi ritenendoli sapienti ma che si lasciano addomesticare ed incantare da chi li riempie di fumo elogiativo, li divora e li sfrutta. Dichiara di essere ebreo, Israelita, della stirpe di Abramo, ministro di Cristo. Enumera inoltre tutte le occasioni di sofferenza e di morte: flagellazione, lapidazione, naufragi, pericoli diversi, disagi, fatiche, veglie senza numero, fame e sete, digiuni, freddo e nudità. Il condensato di questo vanto è sostanzialmente la sua debolezza. Anche oggi si ripetono quasi alla lettera queste situazioni negli ambienti pastorali parrocchiali e religiosi. Quante volte bisogna avere a che fare con un’ignoranza rivestita di presunzione e falsa modestia, con incapacità di fondo e leggerezze gratuite vendute per cose efficaci, col sapore della modernità, accattivanti ma insignificanti. Ma non tutti possiamo essere all’altezza di Paolo di Tarso e siamo costretti talora all’apologia del silenzio, nonostante palesi e pesanti umiliazioni! P. Angelo Sardone

La gelosia divina

«Io provo per voi una specie di gelosia divina» (2Cor 11,2). Non sempre anche nell’opera dell’evangelizzazione si è compresi ed appoggiati. Sovente può capitare di doversi difendere dagli stessi buoni o anche da “super apostoli” dotati di entusiasmo e zelo fino alle stelle con un annunzio leggero ed accattivante la mente, ma palesemente contrastanti con l’autenticità stessa del vangelo proclamato invece con fermezza, fatica e lagrime. Tanti si raccomandano da sé, si misurano con se stessi, si paragonano a sé e di conseguenza mancano di intelligenza e di umiltà. Ciò determina sconcerto e confusione in coloro che ascoltano: talora le persone ingenue e leggere vanno dietro quelle superficiali e si sentono appagati. Le persone serie, anche se rimangono isolati e soffrono, osano sfidare l’opinione comune e seguire la via più stretta, allineando la loro vita al tenore di ciò che affermano. Un elemento proprio di chi vive il ministero della formazione cristiana e dell’accompagnamento umano e spirituale è la manifestazione di un legame affettivo profondo e serio con le persone che guida. Il vincolo non è di simpatia evanescente e fluttuante, ma di amore vero che supera il tempo e le situazioni. Esso dà il valore effettivo di una relazione che va oltre la superficialità di tanti pseudo-annunziatori che proclamano un vangelo accomodante e promettono uno Spirito diverso da quello autentico proveniente dalla Grazia. L’espressione paolina diretta ai Corinti è di profonda tenerezza e spiritualità: Egli nutre verso di loro una sorta di gelosia divina avendoli promessi in sposa, come una vergine casta, all’unico sposo Gesù Cristo. Questa verità è largamente testimoniata da chi, sacerdote o fedele comune, l’ha sperimentata. P. Angelo Sardone

Seminare e raccogliere

«Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). Facendo riferimento al testo dei Proverbi, S. Paolo inserisce nella sua lettera come un biglietto inviato sia agli abitanti di Corinto che a quelli dell’Acaia, a proposito della colletta a favore dei membri della Comunità di Gerusalemme, detti Santi. Il motivo fondamentale che lo spinge è il desiderio di unire le comunità di nuova costituzione, la maggior parte formate da pagani convertiti, con la Chiesa Madre di Gerusalemme. Oltre i beni spirituali occorre condividere anche quelli materiali. Il servizio a favore dei poveri è esaltato come un debito di gratitudine al Signore ed una prova manifestativa della maturità cristiana che prontamente offre senza spilorceria. Ed a riprova di questo concetto Paolo richiama alla mente che, anche nella pratica cristiana della carità, seminare scarsamente, cioè donare per forza o a malincuore e senza entusiasmo, significa poi raccogliere scarsamente; seminare con larghezza e generosità, cioè donare con liberalità, significa raccogliere con abbondanza. Ciò che viene dato deve essere deliberato con serenità nel proprio cuore e non essere succube della tristezza o della forza: “Dio, infatti, ama chi dona con gioia”. Soccorrere i poveri nel corpo e nello spirito, significa prestare a Dio. Seminare è un’arte che per analogia si applica non solo alle occupazioni lavorative nei campi, ma anche al servizio dell’evangelizzazione. Nessuno, però, dà ciò che non ha, e questo vale molto proprio nel ministero della predicazione e della testimonianza nel quale non si può improvvisare o pensare di vivere di rendita. Se si semina bene in ogni campo, si raccoglierà altrettanto bene in ogni cosa. P. Angelo Sardone

La povertà e la condivisione

«La loro estrema povertà ha sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità» (2Cor 8,1). Uno degli elementi che caratterizzano la seconda lettera di Paolo ai Corinzi è l’invito e la realizzazione di una colletta a favore dei poveri di Gerusalemme. La manifestazione concreta della crescita nella fede si ha anche con la condivisione materiale con chi è nel bisogno. La letteratura neo testamentaria, a partire dal Vangelo, sottolinea continuamente questa esigenza: ciò che si è ricevuto gratuitamente va condiviso. L’opera di S. Paolo costituisce un grande insegnamento per le generazioni dei cristiani tante volte rinchiusi nei propri bisogni e nelle proprie ricchezze. È molto bello constatare come un vero ed autentico cammino di fede fa maturare in chi più possiede, il desiderio e quasi il bisogno di dare con generosità a chi non ha il necessario. Si diviene generosi con gli altri se si è maturata una generosità fattiva verso il Signore che è sempre largo di doni. Ci sono tanti ricchi che sono solleciti e provvedono anche nel nascondimento alle necessità dei poveri. Ci sono tanti altri che magari non sono ricchi, ma che diventano avari e si perdono dietro calcoli egoistici che non solo non fanno crescere ma intristiscono e deludono. La sincerità dell’amore si mette alla prova con la premura verso gli altri. Molte volte si riscontra come i poveri siano generosi, consapevoli che la propria indigenza fa comprendere ancora di più l’indigenza altrui. La ricchezza nella fede, in ogni zelo e nella carità impone di essere altrettanto ricchi e larghi nella generosità verso chi è nel bisogno. Si cresce nella vita di fede passando attraverso questa strada. Il resto potrebbe essere semplicemente illusione. Cristo rende ricchi per mezzo della sua povertà. P. Angelo Sardone.