La sapienza, Dio

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«Dio si fa trovare da quelli che non lo mettono alla prova, e si manifesta a quelli che non diffidano di lui» (Sap 1,2). La sezione biblica nota come didattico-sapienziale, prende il nome da un libro interessante, “Sapienza”, entrato solo in un secondo momento a par parte dei libri canonici, cioè ritenuti ispirati. L’opera, certamente di un ebreo pieno di fede ed ellenizzato che viveva ad Alessandria d’Egitto, impregnato di cultura e mentalità greca, è composta di 19 capitoli ed è scritta in lingua greca. L’autore ricorrendo ad una finzione letteraria fa credere di essere Salomone, il grande e saggio Re di Israele che si rivolge ai suoi colleghi, i giudici della terra. In effetti vuole esortare i Giudei minacciati dai culti pagani dell’ambiente circostante a non tentennare e   presenta Dio col termine di “Sapienza”. Egli si fa trovare da coloro che non lo mettono alla prova e si fidano di Lui. Dio ama l’uomo, è testimone dei suoi sentimenti, conosce i suoi pensieri, ascolta ogni sua parola e punisce il bestemmiatore. Le prime parole del libro presentano la sapienza ed il destino umano invitando a cercare Dio ed a fuggire il peccato, soprattutto nella dinamica degli opposti: giustizia-ingiustizia, morte-immortalità. Chi non segue la giustizia cadrà in “ragioni insensate” e non sarà aperto alla sapienza che scende dall’alto e non abita in chi commette il peccato e ne è schiavo. Ogni sofferenza umana patita dal giusto è ricompensata con l’immortalità. Non tentare Dio e non diffidare di Lui sono criteri sensati per ogni epoca che uniti ad una ricerca fatta col cuore semplice, permette davvero di trovare il Dio di ogni grazia e consolazione. P. Angelo Sardone

Le due vedove

«La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16). La povertà si raccorda con la carestia e la siccità. Il bisogno di pane per vivere si interseca con la richiesta di un lavoro dignitoso col quale si possano esprimere capacità e doni. M quando non piove per lungo tempo, quando la ricerca di una occupazione diviene un assillo quotidiano e sembra che sia inascoltato il grido del povero e sofferente, solo la fede fa percepire l’intervento della Provvidenza di Dio. La Sacra Scrittura ritiene tra le fasce deboli della società le vedove. L’episodio quasi speculare di due di esse, quella di Sarepta di Sidone risalente al ciclo biblico del profeta Elia e quella del Vangelo, sottolineata dalla precisa indicazione di Cristo, nella opulenta e pur povera società di oggi, diventano uno stimolo per una seria riflessione di abbandono fiducioso in Dio e di autentica ed eroica generosità di cui sono dotati gli stessi poveri. Entrambe le vedove sono anonime proprio perché dietro di loro si celano infinite analoghe situazioni di ogni tempo. Il pugno di farina e le poche gocce di olio utili per confezionare l’ultima focaccia e poi morire, come i due spiccioli gettati nel tesoro del tempio, tutto ciò che la vedova evangelica possedeva, sono gli elementi catalizzatori della generosità delle due donne vessate dalla sventura umana della perdita del marito e, nel contempo, della loro straordinaria generosità che manifestano nel dono di tutto ciò che hanno e di tutto ciò che sono. Finché giunse la pioggia la farina e l’odio non vennero meno. L’unico possesso per vivere, al contrario del superfluo tintinnante del denaro dei ricchi, meritò l’elogio di Gesù: ha dato tutto ciò che aveva. Grande insegnamento per la vita di oggi laddove la povertà non è sconfitta e la brama del possesso è continuamente alimentata. P. Angelo Sardone

Priscilla ed Aquila i collaboratori di Paolo

. «Per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato» (Rom 16,4). La lunga ed intensa lettera ai Romani si chiude con una serie di saluti. Non sono semplicemente parte della consuetudine letteraria ed epistolare, con un carattere prevalentemente religioso, ma l’espressione sincera e viva della gratitudine che S. Paolo nutre e manifesta nei confronti di coloro che lo hanno aiutato e sono con lui sulla breccia continua dell’evangelizzazione. Il saluto si sviluppa su tre piani: i più stretti collaboratori, la comunità di Roma invitata a scambiarsi il bacio santo, tutte le altre Chiese. Tra i collaboratori più stretti e fidati Paolo cita l’ebreo Aquila e la romana Priscilla, una coppia di convertiti che vivono reciprocità e grande amore sponsale. Si erano trasferiti a Corinto e, divenuti grandi suoi amici gli avevano offerto un aiuto deciso e rischioso quando era rimasto vittima del tumulto di Efeso. La collaborazione dei laici nell’evangelizzazione accanto ai sacerdoti e ministri è di fondamentale importanza non solo dal punto di vista tecnico ed organizzativo, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano. L’amicizia vera tra il sacerdote ed i suoi fedeli è di capitale importanza per entrambi. Ma deve trattarsi di una amicizia vera, matura, seria, feconda di bene e non di opportunismo e labile simpatia temporanea ed evanescente che presto evapora e non fa ricordare neppure i nomi. Spesso in una società dominata da sentimentalismo sotto mentite spoglie di vicinanza e di collaborazione pastorale si corre questo serio rischio che porta detrimento all’uno ed agli altri. Poi arriva la morte e ci si dimentica facilmente. P. Angelo Sardone

L’unico vanto di Paolo: il bene delle anime

«Questo è il mio vanto in Gesù Cristo nelle cose che riguardano Dio» (Rm 15,17). L’apostolo Paolo fu ministro di Cristo tra le genti col compito di annunciare il vangelo di Cristo, da Gerusalemme fino all’Illiria, perché i pagani divenissero un’offerta gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo. Rispettoso sia degli altri missionari contemporanei che delle popolazioni alle quali essi avevano annunziato il nome di Cristo, si era riservato di non costruire su fondamenti altrui, ma di andare in altri luoghi dove nessuno ancora si era recato. Nutriva infatti il proposito di recarsi in Spagna. Nonostante ciò, ligio al dovere dell’annuncio, aveva voluto ribadire agli abitanti di Roma, presso i quali avrebbe fatto una sosta, alcuni punti della fede perché, come aveva già detto Isaia, «quelli che avevano sentito parlare avrebbero compreso ulteriormente» (Is 52,15). Il suo lavoro apostolico fu essenzialmente quello di mettere in contatto gli uomini con Dio, per le cose degli uomini che riguardano Dio. Il successo in ciò, gli ha già procurato un vanto che gli deriva non tanto dalle sue azioni quanto dall’unione con Cristo, dal quale tutto gli veniva. È interessante come lo stesso autore della Lettera agli Ebrei, tracciando l’identità del sacerdote, lo definirà «costituito in favore degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (Eb 5,1). Questo era ed è l’unico vanto dei ministri di Dio nello sviluppo della loro azione pastorale per la quale offrono la propria vita e, secondo la bontà e la Provvidenza di Dio, raccolgono frutti maturi e significativi. P. Angelo Sardone

Carlo Borroneo, giovane ed energico santo

«Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore» (Rm 14,7-8). L’appartenenza a Cristo costituisce uno dei tratti fondamentali della vita e dell’impegno cristiano ed è espressione concreta della mutua associazione. Nella vita dei cristiani esiste una dicotomia tra i maturi e forti che sono liberi da prescrizioni assillanti ed esterni e da deboli nella fede che legano il proprio modo di agire ad imposizioni che vengono dall’esterno e che talora sono velati di superstizione. In tutto ed in tutti deve prevalere l’unità che non è necessariamente uniformità di vedute, ma si traduce in attenzione, comprensione e rispetto dell’atteggiamento altrui. Maggiormente quando si hanno nella comunità responsabilità derivanti dalla propria vocazione. È il caso di S. Carlo Borromeo (1538-1584), grande pastore della diocesi di Milano, insieme con altri santi, guida della Controriforma cattolica ed animatore del Concilio di Trento. Di corporatura robusta, era alto più di un metro ed ottanta, a poco più di vent’anni da suo zio il papa Pio IV fu nominato suo segretario e cardinale. Mettendo in atto le prescrizioni del Concilio tridentino, ebbe a cuore la formazione del clero e dei fedeli, visitando la vastissima diocesi, fondando seminari, edificando ospizi ed ospedali con le ricchezze della sua famiglia e difendendo l’autonomia delle istituzioni ecclesiastiche. All’unità della diocesi associò l’umiltà della sua vita ed il servizio dei poveri nello spirito e nel corpo, fino all’eroicità nel corso della peste del 1576, quando contrasse la malattia e morì. In lui vita e morte si qualificano «per» il Signore: è questo l’atto maggiore di eroismo cristiano. P. Angelo Sardone

L’unico debito

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8). Il cristiano si distingue per la pratica dell’amore che nasce direttamente da Dio e qualifica la sua vita e le sue azioni. Il comportamento verso gli altri necessita di questo elemento che è il culmine e la sintesi della Legge, di entrambi i Testamenti. L’amore verso gli altri, nella mentalità di Paolo e nella prassi di vita cristiana, è come un debito da pagare a tutti. Da questo dipende poi la vera realizzazione e l’autentica felicità. La legge antica rinnovata e reinterpretata dallo Spirito Santo diventa la legge nuova e si realizza nella sua pienezza. Le prescrizioni contenute nei comandamenti, eco di quanto Gesù stesso aveva insegnato, si risolvono in forma completa nell’amore verso il prossimo. L’amore non fa male, non vuole il male, è il perfetto contrario del male. Nella relazione di amore verso il prossimo viene superata la nozione giuridica del debito che impone al debitore di assolvere una prestazione a favore del creditore nell’ambito del dovere e non della libera volontà di fare. Il vero amore che viene da Dio, lo ha ribadito Gesù Cristo stesso, deve diventare vicendevole e raggiungere la qualità del dono supremo: dare la vita per la persona che si ama. Le norme della vita cristiana esprimono così la natura stessa dell’amore: oblazione, servizio, debito di gratitudine. La catechesi in merito non è mai troppa perché è sempre in agguato il contrario dell’amore: l’egoismo e la ricerca del proprio interesse. P. Angelo Sardone

I defunti: fratelli e sorelle della porta accanto

«Dio asciugherà ogni lacrima; non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apc 21,4). L’annuale Commemorazione dei Fedeli defunti è una singolare espressione liturgica della Chiesa pellegrina nel mondo che ricorda e prega per tutti coloro che hanno concluso il cammino terreno e, attraverso il mistero della morte, sono entrati nella vita senza fine. Ciò che è enigma, oscuro, sorprendente ed inspiegabile mistero, è mutato da Cristo in certezza: la vita non ha fine, è semplicemente trasformata e, per quelli che credono in Lui, vi è la risurrezione nell’ultimo giorno e la vita eterna. La Parola di Dio offre un dato di fede, un elemento essenziale della rivelazione: si crede e si spera fermamente che «come Cristo è veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto» (CCC, 989). La morte, entrata nel mondo per invidia del diavolo e a causa del peccato, condiziona la vita dell’uomo sin dal suo nascere e trova pieno compimento nell’ora ultima quando l’anima che è immortale, staccandosi dal corpo che è di terra e viene affidato alla terra, torna a Dio. A qualunque età ed in qualsiasi condizione di vita, si conclude il pellegrinaggio terreno. Tutto ha fine: gioie e dolori, fatiche e speranze, desideri e delusioni, gloria e sofferenze. Agli occhi di Dio tutto viene livellato. Il destino ultimo della propria vita è stato affidato a ciascun uomo e donna, alla loro autonoma e libera responsabilità di fare il bene o il male, di praticare la giustizia e la verità, di accogliere o rifiutare la legge di Dio e i suoi comandamenti. Dopo la morte tutto appartiene alla misericordia di Dio. Noi aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. P. Angelo Sardone

Il comandamento più grande

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Questi precetti ti stiano fissi nel cuore» (Dt 6, 4-6). Il primo comandamento è «Ama il Signore Dio tuo». Lo ha ribadito Gesù a chi glielo chiedeva. La legge antica da Lui pienamente adempiuta, parte sempre dalle indicazioni prioritarie e primordiali che Jahwé aveva formulato tramite Mosé per il suo popolo. L’ascolto sta a fondamento dell’accoglienza del mistero dell’unicità di Dio e della grandezza e potenza della sua Parola. L’ascolto è il primo passo dell’amore, la disponibilità ad accogliere il precetto antico e nuovo dell’amore. Se non ci si dispone all’ascolto non si può comprendere l’ingiunzione ad amare Dio con la totalità del proprio essere: cuore, mente, anima e forze. La necessità di amare Dio con queste caratteristiche e potenzialità talora sfugge alla comprensione limitata dell’uomo preso da amori che distraggono e disturbano, che incantano come sirene e non aprono a prospettive solide e perduranti. Un retto rapporto di amore si basa sul dinamismo dell’ascolto e della traduzione pratica dei precetti formulati da Dio. L’amore di Dio si manifesta col dono dei suoi comandamenti e la richiesta di fedele loro osservanza. Perché ciò avvenga essi devono rimanere incisi nella mente e nel cuore, insegnati ai propri figli, costituire le norme fondamentali alle quali rifarsi ogni momento della vita. Una fede solida e matura non può prescindere da essi: sono la vera ricchezza. Il mondo di oggi frastornato da leggi e leggine che sovraccaricano di ingiunzioni a volte anche contrari alla natura ed al buonsenso, ha bisogno di tornare ai precetti di Dio e praticarli in maniera coraggiosa. P. Angelo Sardone

L’apologia di San Paolo

«Io sono un Israelita della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino» (Rm 11,1). L’avvento di Paolo nella scena evangelizzatrice della Chiesa primitiva, causò un certo trambusto. Il persecutore direttamente convertito da Gesù sulla via di Damasco, pienamente investito di doni e carismi straordinari, comincio la sua missione con entusiasmo pur in mezzo a tante difficoltà causategli dai Giudei che non potevano comprendere il repentino cambiamento della sua vita. Imperterrito, per quella forza venutagli dal terzo cielo dove era stato trasportato, si diede alla predicazione seguendo la sua vocazione di “apostolo dei gentili”, cioè dei pagani. I suoi viaggi missionari testimoniati puntualmente da S. Luca negli Atti degli Apostoli e le indicazioni significative riportate nelle sue lettere, confermano ampiamente il suo zelo e la sua passione per la salvezza delle anime. Tra queste non potevano non esserci i suoi conterranei, i Giudei che tanti ostacoli gli opponevano. L’eloquente testimonianza che Egli riporta nella lettera ai Romani conferma la sua appassionata apologia di vero Israelita, cresciuto alla scuola di Gamaliele nella più ferrea dottrina, quasi a dire la sua competenza culturale e di vita nella fede accolta dalla Tradizione qualificata del suo popolo. La trasformazione operata dalla grazia di Gesù lo rende ora paladino ed assertore del compimento delle promesse di Dio nei confronti del suo popolo, con la naturale evoluzione ed   attuazione apportata da Gesù di Nazaret. P. Angelo Sardone

La sofferenza ed il dolore di S. Paolo

«Dico la verità in Cristo, non mento, ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua» (Rm 9,1). L’incredulità ostinata dei Giudei, popolo scelto da Dio, procura a S. Paolo una grande sofferenza. La sua emotività viene espressa con chiarezza e semplicità, quasi una sorta di auto-confessione non di debolezza, ma testimonianza di un grande amore per il popolo da cui proviene. Talora una lettura superficiale dei suoi scritti potrebbe lasciare apparire una personalità staccata, fredda, con un giuridismo esasperato. Si tratta invece di un individuo caldo, emotivamente coinvolto in una tenerezza espressiva singolare. Lo Spirito Santo e la sua coscienza attestano il valore ed il peso della sua sofferenza a causa ed a vantaggio dei suoi fratelli Israeliti, consanguinei nella carne, ai quali riconosce una doppia serie ternaria di doni ricevuti da Dio, che lo pongono in una posizione privilegiata: adozione a figli, gloria e alleanze; legge, culto, promesse. Cristo è il dono più grande che supera tutti e che da loro proviene secondo la carne. Il dolore e la sofferenza per il rifiuto di Cristo da parte dei Giudei, induce l’Apostolo a desiderare di essere lui stesso «anàtema», cioè separato dalla gloria, per dare onore a Cristo, cosa che potrà venire dalla loro conversione (S. Tommaso d’Aquino). I parametri di questa esperienza dolorosa si ripetono nella storia dei popoli e della Chiesa anche oggi, quando tanti cristiani rinnegano la fede e vivono come se Dio non ci fosse e tutto dipendesse dalle loro capacità, dall’ingegno e da una florida economia. Quanta sofferenza si genera allora nel cuore e nella vita dei Pastori! P. Angelo Sardone