Il precursore di Cristo nella nascita e nella morte

«Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra» (Is 49,2).
Le parole profetiche del secondo carme del servo di Jahwé, sintesi prospettica dell’identità e della missione di Gesù, si addicono perfettamente anche alla missione di S. Giovanni Battista. Figlio di Zaccaria ed Elisabetta, cugina di Maria di Nazaret, Egli è l’unico santo del quale, oltre la Vergine Maria, si celebra il giorno della sua nascita, sei mesi prima del Natale di Gesù. Soprattutto nell’arte pittorica viene indicato come «san Giovannino». Gli epiteti che a lui si riferiscono nel Vangelo sono molteplici: il più grande fra i nati di donna, ultimo profeta del Vecchio Testamento, precursore di Cristo, battezzatore (donde il soprannome Battista). Il suo nome significa «Dio è propizio». Fedele alla missione ricevuta, condusse una vita austera nel deserto nutrendosi di locuste e miele selvatico. Diede inizio quindi alla predicazione della penitenza ed all’amministrazione del battesimo lungo il fiume Giordano, per l’avvento del regno messianico. Quando si presentò anche Gesù, con un certo imbarazzo gli amministrò il battesimo, riconoscendolo come colui che avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Per la coerenza del suo annunzio e la fedeltà alla verità senza compromessi, pur essendo ascoltato con interesse, per via di Erodiade e dello stupido giuramento di Erode a Salomè, fu decapitato nel carcere del Macheronte, sulla riva del Mar Morto. Dolcezza, coerenza, umiltà e fermezza sono le caratteristiche sue proprie che ancora oggi risuonano come modello di vita veramente evangelica. Auguri a tutti coloro, uomini e donne, che portano il suo nome. La protezione di S. Giovanni Battista stimoli sempre più una corretta vita cristiana che obbedisce alle regole del Vangelo e si apre ad una autentica santità. P. Angelo Sardone

Tenerezza e fermezza in S. Paolo

«Il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,30). Le lettere di S. Paolo non sono missive come lo erano e nostre quando scrivevamo con penna e fogli. Sono veri trattati di teologia, scritti ispirati che contengono qua e là anche espressioni profondamente umane ed autobiografiche non espedienti letterali, ma vere e proprie confessioni. Ad un certo punto nella seconda lettera ai Corinti, Paolo apre quello che chiama il «discorso insensato» dove più che le parole, parlano i fatti ed in particolare le sofferenze da lui subite da parte di millantatori di verità diverse dal Vangelo, o contrastate da Giudei rimasti ferrei nella legge di Mosè. Le enunciazioni sono diverse e molto colorite: dalla prigionia alle percosse, dalle flagellazioni alla lapidazione, dai naufragi agli innumerevoli pericoli di mare e di terra, di deserto, di città, fame, sete, digiuno. Oltre tutte queste cose, confessa, il suo assillo quotidiano derivato dallo zelo pastorale: la preoccupazione per tutte le Chiese da lui fondate. Essa era derivata dalla paura delle cadute dei più deboli e dagli scandali cui potevano essere sottoposti i neofiti. Questo gli genera ansia e per questo freme. Si tratta di una confessione straordinaria che dice tutto il suo zelo ardente per l’annunzio del Vangelo e la salvezza delle anime. Noi sacerdoti dobbiamo imparare da lui il vero senso dello zelo autentico delle anime, mettendo da parte situazioni di facile compromesso e di accomodamenti solipsistici o propiziatori di fatue benevolenze che non fanno crescere né il popolo di Dio né tanto meno il presbitero stesso. P. Angelo Sardone

San Luigi Gonzaga

«Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). I motivi ed i vantaggi spirituali della colletta per la comunità di Gerusalemme sono presentati da S. Paolo nel corso della sua seconda lettera ai Corinti, invitandoli alla generosità. Citando probabilmente un detto popolare, eco anche del libro dei Proverbi (22,8), ricorda loro che il raccolto abbondante è in proporzione alla semina. Tutto ciò che viene dato con gioia è ricompensato da Signore col suo amore. In questa logica si colloca la vita e l’opera di S. Luigi Gonzaga (1568-1591) del quale oggi si celebra la memoria. Dalla mamma, del casato nobile di Mantova, imparò ad orientarsi a Dio. L’Eucaristia fece maturare in Lui una forte unione a Gesù. Il resto lo fece la grazia, plasmandolo interiormente e rafforzando gli elementi che gli erano propri: la vivacità, il divertimento, la gioia e soprattutto la carità. Quando aveva appena 16 anni entrò nella Compagnia di Gesù votandosi allo studio, alla preghiera ed all’attenzione verso i poveri e gli ammalati. Durante gli studi di teologia, trovandosi a Roma, subito dopo la siccità e la carestia scoppiò un’epidemia di tifo. Per strada raccolse un malato di peste e ciò gli fu fatale: contagiato dal terribile male, giunse alla fine della vita in maniera molto veloce, pronto e felice per l’incontro con Dio, autentico martire della carità. S. Annibale che lo proponeva ai giovani come patrono, lo definiva giglio, Angelo e modello di illibatezza dell’anima e dei costumi, perchè «sia immacolata la mente, immacolato il cuore, immacolati gli affetti». Auguri a tutti coloro, uomini e donne che ne portano il nome perché rispecchino nella loro vita le sue virtù ed il suo angelico pudore. P. Angelo Sardone

La colletta per Gerusalemme

«Superando le nostre stesse speranze, si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio» (2Cor 8,5). Notoriamente la seconda lettera di Paolo ai Corinti, presenta e documenta la colletta organizzata
per la comunità cristiana di Gerusalemme, i santi, onde invitare i destinatari e con loro tutti quelli che avrebbero letto la lettera, alla generosità. Il resoconto è puntuale e ricco di particolari, anche con l’intento di spronare i cristiani di allora a mettere in pratica la fede accolta col battesimo, con la pratica delle opere buone. Ed a testimonianza di quanto si è fatto e raccolto, cita le Chiese della Macedonia che, nonostante la grave tribolazione soprattutto da parte degli Ebrei che erano influenti in tutta la regione e la povertà nella quale versavano, avevano sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità, dando molto di più di quanto i loro mezzi consentissero. È significativo un passaggio nel quale l’Apostolo confessa la sua positiva confusione dinanzi a quanto essi hanno compiuto nel superare qualunque speranza che egli potesse avere in loro. Si tratta di una loro disposizione interiore nel donarsi a Dio ed anche a Paolo grazie ad un interiore impulso della volontà di Dio. I Macedoni si rivelano autentici pionieri dell’impegno caritativo cristiano. I criteri della carità sono molto diversi da quelli amministrativi soppesati dall’accortezza e programmazione, perché sono pilotati direttamente dal cuore generoso di Dio che incita i fedeli con impulsi interiori, a dare generosamente proprio sull’esempio di Cristo che si è fatto povero per arricchirci della sua povertà. P. Angelo Sardone

Apostoli, collaboratori di Dio

«Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2Cor 6,19). I ministri di Dio sono chiamati a collaborare all’opera di Dio per la salvezza, spendendosi generosamente nel realizzare a pieno il compito ricevuto. La collaborazione avviene con Dio attraverso l’annuncio della sua Parola e l’offerta della grazia, cioè la sua benevolenza. Se non ci si impegna in maniera adeguata si corre il rischio di rendere inefficaci questi doni, e lo stesso ministero viene biasimato. Dinanzi al dono fatto da Dio non c’è tempo per tergiversare: chi lo fa si espone a conseguenze disastrose. Alacrità e vicinanza appartengono non solo ai messaggeri del Vangelo ma anche al popolo di Dio che è chiamato ad accogliere stimoli ed indicazioni. S. Paolo col suo stile deciso e nello stesso tempo amabile, esorta i cristiani ad essere disponibili ad accogliere la grazia in maniera efficace e non vana, tenendo conto che la prima responsabilità dell’evangelizzatore è la fedeltà nella sua trasmissione. Per Dio ogni tempo è favorevole ed ogni giorno può essere per l’uomo il giorno della sua salvezza. Il compito dell’apostolo di ieri e di oggi è quello di non essere scandalo per nessuno per non andare incontro a critiche mordaci, ma di presentarsi come ministro di Dio con la dovuta fermezza in tutte le situazioni della vita, con benevolenza, verità ed amore sincero. D’altronde questo è richiesto da molti del popolo santo di Dio che non si accontentano della retorica ma vogliono testimonianza concreta nelle parole, nei gesti, nei comportamenti, nell’abbigliamento, nella conduzione della propria vita, al contrario di altri superficiali ed emotivi che sono attratti dalla simpatia e dalla leggerezza di altrettanti comportamenti. P. Angelo Sardone

Il popolo del suo pascolo

«Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6). Il cammino del popolo di Israele nel suo esodo verso la terra promessa viene guidato fondamentalmente da Dio. È Lui il «Deus sabaoth», il conduttore delle schiere. Mosè è stato costituito da Dio stesso condottiero destinato a portare il popolo alle soglie della terra della loro definitiva abitazione. Il suo dialogo continuo con Dio lo rende consapevole della sua responsabilità di porta-parole di Dio, obbediente ad ogni suo comando e trasmettitore fedele di ogni sua parola. I criteri scelti da Jahwé nei rapporti con il popolo del suo pascolo sono basati sulla richiesta di ascolto della sua voce e della custodia dell’Alleanza, perché possa godere della particolare appartenenza a Lui, quale nazione santa e regno di sacerdoti. Sono questi gli arcaici segni di quella che sarà l’identità della Chiesa, nuovo popolo di Dio, da Lui scelto e chiamato per annunziare al mondo le meraviglie del suo amore. Ciò che lo attende è il deserto, la privazione, la difficoltà di saziarsi di pane e di dissetarsi di acqua. La caratteristica fondamentale sarà quella di essere un popolo sacerdotale consacrato a Dio nella manifestazione del culto a Lui e nell’esercizio fedele di un rapporto orante e propiziatorio. Col sacramento del Battesimo i figli di Dio sono incorporati a Cristo come sacerdoti, re e profeti in un itinerario di libertà, salvezza e gioia. Questa grande dignità va salvaguardata costantemente e tenuta a riparo dalle correnti malefiche del disorientamento ideologico e di vita, per permettere di camminare sulla strada dell’obbedienza e della consegna della propria vita nelle mani di Dio per poter essere degni operai del Vangelo in una messe sempre più abbondante che evidenzia la scarsità dei ministri e dei servitori del Regno. P. Angelo Sardone

Il Cuore Immacolato di Maria

«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, la loro discendenza in mezzo ai popoli» (Is 61,9). Molto opportunamente la Liturgia colloca subito dopo la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù la memoria del Cuore Immacolato di Maria. Entrambi i cuori formano un tutt’uno: «il Cuore del Salvatore si proietta e si riverbera nel Cuore della Madre, socia e discepola» (Direttorio Pietà Popolare). Nell’esemplificazione devozionale della pietà popolare, il Cuore di Maria ha senz’altro un posto di rilievo, facendo riferimento innanzitutto al cuore in quanto tale di una creatura che ha avuto il privilegio di divenire Madre di Dio, portandosi dentro non solo la gioia immensa di tale maternità, ma anche il dolore provocato da una spada che, secondo la profezia di Simeone, ha trafitto il suo cuore per la passione e morte di Gesù. Il Cuore di Maria come quello di Gesù è un abisso di grazie e benedizioni. La festività odierna fu voluta da Pio XII che il 1942 consacrò la Chiesa e il genere umano al Cuore Immacolato di Maria, e nel 1944 la estese a tutta la Chiesa. Proprio a Fatima la stessa Vergine Maria tra le altre cose aveva assicurato: «il mio cuore immacolato trionferà». In maniera analoga al Cuore di Gesù, si sono sviluppate espressioni diverse di pietà popolare verso il Cuore di Maria: la riparazione attraverso la preghiera, la mortificazione, le opere di misericordia, la pratica dei cinque primi sabati del mese, occasione per vivere in forma intensa e con un atteggiamento ispirato alla Vergine, il Mistero pasquale che si celebra nell’Eucaristia. P. Angelo Sardone

Sacro Cuore di Gesù e Giornata sacerdotale

Sacratissimo Cuore di Gesù. Una delle massime espressioni della pietà cristiana è costituita dalla singolare devozione al Sacro Cuore di Gesù. Essa si basa su elementi importanti: riparazione, amore e gratitudine. Nell’atto della crocifissione si rappresenta in maniera più adeguata il Sacro Cuore che non è altro che Cristo crocifisso ed il suo costato aperto dalla lancia. I Santi e le Sante, particolare alcuni, sono stati insigni apostoli di questa devozione. Già a partire dal Medioevo molti, soprattutto mistici e mistiche, approfondirono il mistero del Cuore di Cristo, come sede della misericordia e dell’incontro con lui, sorgente di infinito amore. In epoca più recente si distinsero S. Margherita Maria Alacoque (†1690), a cui il Signore rivelò le ricchezze del suo Cuore e S. Claudio la Colombière (†1682) solerte promotore. L’intuito pastorale e sacerdotale di S. Giovanni Paolo II volle che in questa circostanza, già dal 1995, si celebrasse la Giornata di preghiera per la Santificazione dei sacerdoti, perché «il sacerdozio sia custodito nelle mani di Gesù, anzi nel suo cuore, per poterlo aprire a tutti». La santità dei presbiteri è infatti via di accesso ed itinerario di santificazione dell’intero popolo di Dio. Proprio per questo il santo Curato d’Ars affermava che «il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù»: in esso i presbiteri trovano la loro intimità e la loro stessa ragione di essere, come pastori ed operatori qualificati della carità di Cristo, da Lui scelti, consacrati nella fedeltà e fecondità del loro ministero. S. Annibale M. Di Francia chiamò la nostra Congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, sia perché la preghiera per le vocazioni è il frutto diretto di quel dolcissimo cuore, sia perché un’autentica santità sacerdotale si stabilisce sul modello del Cuore divino che è nello stesso tempo un cuore d’uomo. Chiedo una preghiera per noi sacerdoti, perché possiamo essere oggi proiezione anche se impari, di quel cuore puro, fedele, appassionato di amore per Dio e per le anime. P. Angelo Sardone

Formazione ed animazione di una comunità

«Da noi stessi non siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza» (2Cor 3,5-6). La formazione e l’animazione di una comunità cristiana, soprattutto agli inizi della diffusione del Cristianesimo, non fu cosa facile. La grazia e la sapienza di Dio orientarono i passi di S. Paolo nella sua missione evangelizzatrice ovunque, ma soprattutto nella città di Corinto, ambiente difficile perché crocevia di pensiero, religioni, commerci e soprattutto vita morale non proprio eccellente. Il lavoro di Paolo fu duro ed estenuante per circa un anno e mezzo: col suo esempio, prima di tutto procacciandosi da vivere col suo lavoro, con l’annunzio chiaro del Vangelo anche in mezzo alle difficoltà, col sedare conflitti ed appianare contrasti dovuti anche a posizioni diverse di qualche evangelizzatore. Il frutto del suo apostolato sono le Comunità che ha fondato, che sono opera dello Spirito e si raccomandano da sé. La novità che viene proprio dallo Spirito fa superare l’antica alleanza. Tutto questo fa parte di una capacità che viene esclusivamente da Dio e fa oltrepassare le inevitabili difficoltà dovute soprattutto alle posizioni dei giudaizzanti. Paolo, mentre rivendica l’incapacità di pensare da solo e secondo la carne, attribuisce unicamente allo Spirito la capacità di essere Ministro della nuova alleanza. La legge antica, esteriore e scritta viene superata ora da quella dello Spirito, interiore che vivifica e dà forza. È questa nuova legge che conferisce all’apostolo di ieri e di oggi la forza necessaria per parlare, testimoniare e convincere non a partire dalla propria dimensione finita e labile, ma dalla grazia e dalla forza irresistibile dello Spirito. Ciò deve correggere la mentalità e le comunità laddove tante volte le lettere commendatizie sono quelle di chi annunzia e non la verità di quanto viene annunziato e verificato con la pratica della vita. P. Angelo Sardone

La consolazione che viene da Dio

«Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione» (2Cor 1,4). Le lettere di S. Paolo, come tutti gli scritti ispirati e ritenuti tali dalla Tradizione, sono utili per la formazione e la crescita della dimensione della fede. Lo studio della teologia e del nuovo Testamento al di là dei Vangeli che costituiscono l’ossatura portante della fede, trova negli scritti degli Apostoli e, particolarmente di Paolo, una miniera profonda di insegnamenti che danno ragione alla speranza che è in noi. La seconda lettera ai Corinzi si pone in un contesto ben preciso di complementarietà tra l’annuncio fatto a voce e le indicazioni date secondo le notizie ricevute, per il bene della consistete comunità che si era costituita in una città famosa e complessa, centro di cultura greca e crocevia di pensiero e di religioni. Lo scritto si apre con un indirizzo di saluto ed un ringraziamento. È un modo di fare tipico dell’epistolario paolino che dà il tono e presenta i temi fondamentali. Quello della consolazione è un elemento che già i Profeti avevano annunziato quale caratteristica dell’era messianica presentata come conclusione delle prove ed inizio di un tempo di pace e di gioia. La consolazione cristiana proviene dalla sofferenza di Cristo e deve esse accolta come incoraggiamento, conforto, esortazione, con una vera e propria partecipazione e non passività. È Dio che consola in ogni tribolazione. Lo Spirito Santo, secondo l’insegnamento stesso di Gesù, è il consolatore per eccellenza perché riversa nell’animo la grazia e la forza necessaria per affrontare le difficoltà e non perdersi d’animo. P. Angelo Sardone