Il Pane della provvidenza di S. Antonio

Mattutino di speranza

13 giugno 2020

 

Sempre il Signore risponde al grido del povero. Le indicazioni bibliche riservano una attenzione tutta speciale, propria del popolo d’Israele, per tre categorie di persone: gli orfani, le vedove, gli stranieri, che si accomunano in quella più ampia della povertà. Francesco d’Assisi la chiamava “Madonna” e la sposò come ideale carismatico proponendolo al suo Ordine ed alla Chiesa come via concreta per adempiere il Vangelo. Ad essa si sono ispirati i grandi Santi antichi e recenti, quelli più noti come quelli della porta accanto. Gesù Cristo ne ha esaltato il valore e l’ha proposta come ideale del Regno, facendosi Lui povero perché «diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Il suo insegnamento è un vero paradosso. Non si tratta semplicemente di un concetto ma di una realtà, eterna compagna della vita dell’uomo, che si inquadra e esprime nella comune identità umana solcata in ogni tempo dal tema e dal limite della povertà che non sarà mai sconfitta del tutto, secondo quanto Gesù Cristo stesso ha detto: “I poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7). E non può essere diversamente perché “di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3). I poveri sono coloro che necessitano di tutto e proprio per questo si abbandonano con fiducia a Colui che può dare tutto. Sono molteplici gli aspetti della vita e dell’esperienza umana che richiamano il valore della povertà: da quella sociale e materiale, a quella spirituale, da quella culturale a quella relazionale, da quella di idee a quella di operazioni, da quella del pane a quella del lavoro, dell’affetto, della benevolenza, della gratitudine. Una risposta alla povertà di tutti i tempi è costituita dalla vita e dall’esempio di S. Antonio di Padova, insigne predicatore, grande taumaturgo, santo di tutto il mondo. Pur proveniente da un casato ricco e nobile abbracciò la povertà estrema dei Frati Minori mettendosi al servizio dell’evangelizzazione con gli strumenti della fede, la Sacra Scrittura che conosceva a menadito, la predicazione incisiva, forte e sconvolgente, l’attenzione verso le necessità di tutti, particolarmente i poveri di pane materiale e spirituale, derelitti ed afflitti per le vicende umane di sofferenze e malattie, bisognosi di purificazione interiore, conversione, di un autentico ritorno a Dio. Durante la sua breve esistenza, appena 36 anni, ha distribuito a profusione il pane della Parola, della predicazione costante e fortemente incisiva, della cura estenuante delle anime che incontrava e guidava, il pane del perdono e della misericordia di Dio donato con la sua parola sferzante e senza limiti di vergogna e paura. Pochi anni dopo la sua morte, quella del pane divenne una modalità concreta di devozione e di ricorso a lui. Tutto cominciò con la vicenda del piccolo Tommasino, un bimbo di 20 mesi ridato alla vita per l’invocazione fiduciosa ed insistente della mamma che promise a S. Antonio tanto frumento quanto il peso del corpo del suo bambino. S. Annibale Maria Di Francia ripropose la devozione nel 1887 a seguito del colera di Messina per l’iniziativa di una nobildonna che, salvata dal morbo, promise e fece una lauta offerta perché si comprasse “Pane ad onore di S. Antonio per gli orfanelli del canonico Di Francia”. Per noi Rogazionisti quella del Pane di S. Antonio è una specialità che continua ancora oggi nel servizio dei piccoli e dei poveri, parte integrante del carisma della preghiera ed azione per le vocazioni. S. Antonio è il buon “operaio del vangelo” che ha compassione della messe, si spende per essa e la soccorre intercedendo presso Dio perché non manchi mai la sua divina provvidenza, anche in questo particolare e difficile momento della vita sociale. Insieme con il pane, sono espressivi i segni dell’iconografia antoniana che identificano la missione del Santo e la sua potente intercessione: il Libro della Parola (i suoi Sermoni sono un compendio straordinario di dottrina biblica, teologica e pastorale), Gesù Bambino in braccio (amato soprattutto nel mistero dell’Eucaristia), la Madonna venerata con grande amore. In particolare il giglio, segno della intemerata purezza di corpo e di cuore. Ritto nella sua imponente altezza, superbo nella sua bellezza, intenso nel suo inebriante profumo. Sia oggi il segno dell’amore di Dio che avvolge ed inebria la vita e dell’amore dell’uomo che purificato dalla grazia e stimolato dalla testimonianza dei Santi, profumi di virtù e spanda il suo odore insieme con quello di Cristo. P. Angelo Sardone

L’incontro con Dio e la preghiera

Mattutino di speranza

12 giugno 2020

 

Ogni giorno l’inizio della preghiera liturgica è caratterizzato da un gesto simbolico e da una invocazione. Mentre col dito si traccia un segno di croce sulla bocca si aggiunge: «Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode!». L’incisivo versetto del Salmo 50 diviene l’incipit di ogni preghiera che si innalza dal cuore e dalla bocca della creatura al Dio di ogni desiderio, perché sia Lui ad introdurla nel misterioso mondo del suo incontro. La preghiera vera, infatti, quella che esalta e loda il Signore per i suoi benefici, si inebria del suo mistero e permette all’uomo di inabissarsi in Lui, viene suscitata da Dio stesso ed a Lui indirizzata. Diversamente, come afferma il profeta Isaia, non è altro che un costrutto umano di chi si avvicina a Lui solo con la bocca mentre il suo cuore è lontano da Lui e la venerazione verso di Lui non è altro che un imparaticcio di precetti umani (Is 29,13). Un imparaticcio talora pieno solo di parole umane, imbarazzo, confusione, vergogna. Con gemiti inesprimibili lo Spirito Santo porta al cospetto del Signore ogni palpito del cuore, ogni desiderio, ogni pensiero, ogni nostra miseria. Con la preghiera si accarezza il cuore di quel Dio che sta alla porta del cuore dell’uomo e continua a bussare desiderando entrarvi, sedersi e cenare con chi ascolta la sua voce (Apc 3,20). Per introdursi nella preghiera ed incontrare Dio davvero, bisogna prima di tutto entrare nella buia e fredda caverna del monte, una sorta di anticamera della luce di Dio e fermarsi sull’orlo invalicabile del suo mistero impenetrabile. Qui si sosta per riposare nell’incognita di quel buio che richiama il cuore umano popolato talora da confusione, ostacoli, scelte azzardate, scombussolamento, rifiuto pratico di Dio. Dopo la notte passata nel dormiveglia del ripensamento e dell’esame serio e profondo della propria coscienza, Dio stesso invita ad uscire dall’isolamento, dal buio, dalla paura, dell’incertezza, dalla consapevolezza della gravità del peccato e portarsi prima all’ingresso della caverna e poi sul monte per fermarsi alla Sua presenza. Con modi e moti diversi Dio preannuncia il suo passaggio e la sua presenza: il vento, il terremoto, il fuoco. In essi non c’è Dio, ci siamo noi. Questi elementi tumultuosi della natura richiamano lo stato di fatto dell’anima umana scoraggiata ed auto-vilipesa: la veemenza delle passioni ed il turbinio della coscienza, lo sconquasso determinato dal peccato con la confusione e la paura, le macerie che cadono addosso e che ingombrano la strada della propria realizzazione, il fuoco travolgente della passione ingannatrice che brucia, consuma la coscienza e spazza via la semplicità, macchiando la veste bianca dell’innocenza e della virtù. Si dispiega così ai nostri occhi la responsabilità personale dinanzi alla grandezza della bontà di Dio e del suo generoso amore. Rimanendo all’ingresso della caverna e lasciando alle spalle il buio della notte della tribolazione, del peccato, della perversione, finalmente si coglie il passaggio delicatissimo di Dio nella brezza leggera del mattino che accarezza il viso e penetra nell’animo. Noi ci copriamo il viso sconcertato e pieno di vergogna con il mantello dei buoni propositi, del desiderio innato del bene offuscato dalla ricerca di un amore compensativo ed esaltante, un mantello a volte lacerato dagli strappi consumati di rifiuto del bene, pieno di polvere del suolo e madido di sudore, sporco di sangue sgorgato dalle ferite visibili e nascoste del corpo provocate da noi o da altri. Il Signore allora si ferma; Lui che rispetta la nostra libertà e finanche la scelta sciagurata di respingerLo per seguire le nostre vie, i nostri pensieri i nostri frustranti desideri, viene a noi con la sua voce delicata e suadente e continua a chiedere: «Che fai tu qui?». Noi riusciamo appena a balbettare con molto imbarazzo: «Voglio riempirmi del tuo zelo, perché ho abbandonato la tua alleanza, sono venuto meno agli impegni del mio Battesimo, ho demolito dentro e fuori di me i sacri altari dell’innocenza, della purezza, della mia dignità; ho ucciso tante volte me stesso con la superbia, l’arroganza, la sopraffazione. Mi sono tolto ed ho anche tolto la vita. Ora sono rimasto solo e qualcuno con colpo maldestro cerca ancora di togliermi la vita!». Nell’intreccio di questa insolita preghiera nella quale Dio per primo cerca noi come interlocutori di amore, Egli risponde anche a ciò che non abbiamo il coraggio di dirgli: «Su, abbi pazienza con te, come io ce l’ho avuta e continuo ad averla nei tuoi confronti. Non avere paura e non temere nonostante tutto quello che puoi aver detto e fatto. Smettila di farti del male con le ingannevoli illusioni. Ritorna sui tuoi passi verso il deserto del tuo essere e lì troverai non più la steppa, ma un giardino nel quale dovrai cominciare o continuare a coltivare quei frutti che da sempre ho seminato in te: la fede in me, la bontà, la bellezza, l’intelligenza, il buonsenso, il desiderio di felicità, la tua piena realizzazione. Per ora tocca a te. Giungerà poi il momento quando queste cose dovrai comunicarle ad altri. Ora comincia da te. E noi gli rispondiamo: «Nunc coepi!», «Signore, ogni giorno apro a te il mio cuore e la mia vita. Adesso io voglio ricominciare. Adesso io incomincio» P. Angelo Sardone

L’annuncio e la testimonianza

Mattutino di speranza

11 giugno 2020

 

Il compito del cristiano è annunciare e testimoniare, sempre e dovunque. Questa responsabilità e questo onere gli vengono direttamente dalla sua vocazione di figlio di Dio e dalla sua conformazione a Gesù Cristo, dal quale prende nome. La sua entità si sviluppa e realizza nella vita con comportamenti che traducono in opere il bagaglio della fede ricevuto in dono nel Battesimo. Ad Antiochia per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati “cristiani”, cioè seguaci di Cristo (At 11,26). Il discepolo è colui che ascolta, l’allievo che apprende dal maestro. Il seguace è colui che si pone sulla stessa strada del maestro, va dietro di Lui, sforzandosi di ricopiare i suoi atteggiamenti e di mettere in pratica quanto ha appreso. Gesù stesso lo ha detto: «Prendete il mio giogo su di voi ed imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). Il cristiano è dunque il discepolo di Gesù, la cui scuola dura tutta la vita e fa raggiungere la piena maturità solo al termine della vita. Allora si scopre che quello che si è potuto capire, raggiungere, fare, esprimere, è il minimo di quanto si sarebbe potuto ancora fare. Per tanti cristiani i primi rudimenti della fede sono rimasti tali, prime nozioni; la catechesi si è fermata agli anni della fanciullezza e dell’adolescenza senza alcun ritmo proporzionato all’età ed alla efficienza lavorativa, culturale, sociale. I problemi della vita, gli ambienti, le situazioni, la stessa crescita, tante volte soffocano i desideri spirituali, frenano la pratica della vita cristiana ed impediscono di fatto un attento e sistematico sviluppo della fede nella mente, nei comportamenti e nelle scelte di vita. All’atto del Battesimo, il sacramento fontale, porta che apre alla vita spirituale, che presuppone la fede prima ancora di darla, evidentemente attraverso i genitori che lo richiedono, a ciascuno è stato consegnato un pacchetto di doni da far fruttificare, sviluppare e mettere a servizio. Il cammino abilita gradualmente alla conoscenza adeguata dei doni e si traduce nell’attuazione e nel loro sviluppo soprattutto con la grazia dei sacramenti, la preghiera, la pratica delle virtù, l’impegno sociale, la realizzazione della personale vocazione, la testimonianza. Tutto deve realizzarsi in un clima di semplicità, umiltà e desiderio di agire nel silenzio testimoniante che, quando è vero non è mai vuoto e, se è pieno di Dio, è eloquente con le parole e le azioni adatte e conduce alla perfezione, senza strepito superbo. Un grande vescovo dei primi tempi del cristianesimo, S. Ignazio di Antiochia metteva bene in guardia: «È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo. È cosa buona insegnare, se chi parla pratica ciò che insegna». Nella solenne liturgia dell’ordinazione sacerdotale, i riti esplicativi si concludono con la consegna del pane e del vino, materia del sacrificio eucaristico, ed una formula esplicativa che il vescovo sottolinea con un vigoroso imperativo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Ciò determina nella coscienza e nella vita del prete una grande responsabilità che lo impegna prima di tutto ad essere quello per cui è stato trasformato ontologicamente, e poi ad agire in maniera conforme a quanto ha ricevuto gratuitamente ed accolto volontariamente. Questa responsabilità talora è schiacciante ma è alleggerita dalla consapevolezza che il limite umano è sorretto unicamente dalla conformazione a Cristo e dalla sua azione santificante che fa di un povero uomo un sacerdote, cioè colui che è addetto al sacro, che offre a Dio le cose sacre, i sacrifici del popolo, il popolo stesso. Man mano che si cresce ci si rende sempre più consapevoli dei doni ricevuti e si sviluppa il bisogno dell’annuncio ed il dovere della testimonianza. Ciò comporta una diuturna occupazione per l’ascolto attento della Parola che passa prima di tutto attraverso l’ascolto della propria retta coscienza, la pratica della preghiera che prima di essere formula da pronunziare è atteggiamento da assumere in lode e gratitudine, l’impegno giornaliero nel lavoro intellettuale, manuale, nel servizio della carità. Proprio così l’annuncio diviene testimonianza concreta e l’essere cristiano non rimane parola vuota ma vita piena. P. Angelo Sardone

Il Passaggio del Mar Rosso

Mattutino di speranza

10 giugno 2020

 

Per ogni cristiano lungo il cammino della vita c’è sempre un Mare Rosso ed un fiume Giordano da attraversare. Il mare ed il fiume, elementi biblici che caratterizzano la storia dell’antico popolo di Israele ed indicano il passaggio alla vera libertà ed alla salvezza, si ripresentano e riattualizzano nella storia del nuovo popolo di Dio, la Chiesa, nel suo cammino terreno verso la Terra Promessa del cielo. La pericolosità e le difficoltà di attraversamento del guado, ieri come oggi, sono annientate dall’intervento prodigioso di Dio che crea un argine con l’acqua che si ferma e prosciuga il terreno sul quale, senza difficoltà, si possono mettere i piedi e camminare sicuri. I mezzi efficaci per la realizzazione di questo cammino verso la salvezza sono: Dio che sta sempre alla testa, avvolto in una nube di giorno ed una colonna di fuoco di notte, l’Arca dell’Alleanza che contiene la Legge, ed i suoi portatori, i sacerdoti. L’acqua, nutriente essenziale per ogni organismo vivente sulla terra, può diventare ostacolo da superare mentre si avanza nel cammino. Dio, per la mediazione dei suoi inviati, Mosè prima col suo bastone, Giosuè dopo con l’Arca santa, manifesta la sua onnipotenza sospendendo le leggi della natura e permettendo all’uomo che di Lui si fida, di attraversare la vastità del mare e superare la veemenza dei corsi d’acqua senza difficoltà ed all’asciutto. La sua azione di salvezza continua oggi attraverso la mediazione dei sacerdoti. A loro è affidato il compito di portare sulle spalle l’Arca dell’Alleanza che contiene le tavole della Legge e la manna. Il loro ruolo, la loro azione, il loro ministero, stando a capo e ponendosi dinanzi al popolo in cammino, sono determinanti perché si possa attraversare il Mar Rosso ed il Giordano ed entrare nella terra promessa «nella quale, come diceva Origene uno dei primi Padri della Chiesa, dopo Mosè ti riceve Cristo». Innanzitutto il ministero di portare addosso. Il segno dei sacerdoti alla testa della carovana di Israele proteso verso la terra che Dio ha loro riservato, che portano sulle loro spalle l’Arca, li proietta verso il sacerdote sommo Gesù che, nella pienezza dei tempi e nell’ora della salvezza, porta addosso la sua croce fino a quando sarà piantata sul nudo suolo e, sollevata tra la terra ed il cielo, attirerà tutti a sé. Il sacerdote, per il ministero conferitogli da Gesù Cristo, porta addosso la sua Arca che contiene la Legge di Dio della quale per primo si fa banditore e testimone. Il suo atteggiamento verso questo elemento che nasconde agli occhi degli uomini la presenza stessa di Dio è di riverenza e subordinazione. Quell’arca, come scrive S. Annibale, contiene realmente il cibo che sostiene e dà vita, l’Eucaristia, la vera manna, il cibo degli Angeli che «nutre, difende, fa vedere i beni nella terra dei viventi» (S. Tommaso d’Aquino). Per mezzo del suo ministero può essere attraversato il Giordano. Dove posa i suoi piedi si fa asciutto. Pur essendo alla testa, una volta entrato nel fiume che in atto riverenziale interrompe il suo corso e crea un argine a monte, egli si ferma per permettere al popolo di attraversare con fiducia e senza difficoltà. Solamente quando tutti sono passati, riprende il suo cammino ponendosi nuovamente alla testa mentre il fiume torna a scorrere liberamente. Il suo ministero e la sua azione argina il peccato. Sulle sue spalle, insieme con Gesù che lo sostiene ogni giorno con una grazia del tutto particolare legata alla sua identità ed al suo ministero, insieme col suo peccato, egli porta il peccato del mondo. Tiene fissa alla sua spalla quel peso, aggrappando alla sua umanità debole e peccatrice, la stanga, la piccola trave che regge l’arca e diventa quasi un tutt’uno con lui. È importante che il sacerdote si fermi per permettere agli altri di camminare. Nonostante sia alla testa e guarda avanti, rimane sempre vigile verso chi lo segue e talora stenta a procedere. Anche se cammina spedito, si ferma per vigilare e permettere che tutti passino e superino le difficoltà, mentre stando ritto e fermo, sostiene quel sacro e dolce peso che, solo, rende possibile l’attraversamento. Guardiamo l’Arca che è un segno, ma continuiamo anche a guardare e considerare chi sotto l’Arca regge il suo peso per l’intero guado della sua esistenza.  P. Angelo Sardone

La Divina Provvidenza

Mattutino di speranza

9 giugno 2020

 

Uno dei doni che qualifica l’agire di Dio nel mondo si chiama Provvidenza. Essa viene definita l’azione costante esercitata da Dio sul mondo creato e sulla natura, con la quale vede (videre) davanti (pro) e procaccia tutto quello di cui c’è bisogno per vivere. Diversamente da alcune posizioni filosofiche, la fede cristiana afferma che Dio non solo crea ma si prende cura: la sua cura abbraccia l’universo intero e particolarmente l’essere vivente al quale non lascia mancare nulla sia in termini spirituali che materiali. Il libro della Sapienza con un linguaggio simbolico presenta la Provvidenza come una imbarcazione pilotata da Dio lungo un cammino da Lui tracciato nel mare, ed un sentiero sicuro anche in mezzo alle onde, che garantisce la salvezza anche a chi si è imbarcato senza esperienza (Sap 14, 1-4). La fede riconosce nella “divina Provvidenza” la mano di Dio che è attento ed interviene nelle vicende umane, guidandole al bene e ad una vita migliore. Il salmo 147 canta le lodi della Provvidenza di Dio che «copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti, provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano a Lui» (Sal 147,8-9). In tanti altri Salmi ritornano espressioni simili. Gesù sollecita ad avere fiducia nella Provvidenza, a non affannarsi, perché Dio Padre non fa mancare il cibo, ed invita a guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, l’erba del campo, perché da Dio non mancherà mai l’aiuto (Mt 6, 25-34). Immersi nella realtà del creato, nella storia, nel tempo, nei bisogni giornalieri di nutrimento e di realizzazione, facciamo esperienza di questo grande dono che constatiamo ed accogliamo già dal sole che sorge, dalla luce che invade il mondo, dalla salute e dalla vita ancora a noi conservata, dal cibo. In questa particolare epoca storica che ha messo e sta continuando a mettere a dura prova la pazienza, la costanza nella fede, la fiducia nelle istituzioni, con la forza che viene dalla grazia oltre che dal buonsenso e dalla fiducia in Dio, occorrerà sviluppare ulteriormente la fiducia nella Provvidenza. Anche se ciò può sembrare retorica, dato il fermo produttivo e lavorativo, laddove tanti hanno perduto il lavoro, ci sono inquietanti incognite e le proiezioni economiche non lasciano intravvedere futuri luminosi, occorre continuare ad avere fiducia e sperare in un mondo migliore illuminato dalla luce di Dio e corroborato dalla comune coscienza e responsabilità personali ed istituzionali. Mangiare, bere, vestirsi sono cose che interessano anche Dio: Egli le considera “cose date in aggiunta” e certamente non le farà mancare venendo incontro ai bisogni ed alle inquietudini giornaliere. La preghiera insegnataci da Gesù tra le altre cose invita a chiedere a Lui il “pane quotidiano” a cominciare proprio da quello materiale. S. Antonio di Padova, il santo del “Pane dei poveri” afferma che il pane si dice tale, perché “si pone in tavola con ogni altro cibo”. Non mancherà il pane, né ogni altro cibo, né ogni altra cosa, se sapremo procacciarli con tutti i mezzi, confidando in Dio, sulla base anche di ciò che la saggezza popolare e proverbiale di sempre ha tramandato: «Dio vede e provvede». P. Angelo Sardone.