Il lamento, i lamenti

Mattutino di speranza, 26 giugno 2020.
La vita dell’uomo spesso sfocia in lamenti, passeggeri o continui, intensi e gravi, comprensibili o patologici. Problemi esistenziali, preoccupazioni diverse, vicissitudini varie che ruotano attorno ai più disparati aspetti della vita, dalla perdita del lavoro alla malattia, dalla sofferenza all’invecchiamento, dalle delusioni alla morte, attanagliano l’esistenza umana e determinano uno stato di agitazione, di confusione, di rammarico e dolore che si esprime spesso con il lamento ed il pianto. I lamenti e le lagnanze sono espressioni di insoddisfazione, risentimento, delusione, dolore, manifestazioni di un groviglio di sofferenze ed emozioni turbative. La tradizione biblica conserva un testo attribuito al profeta Geremia, le «Lamentazioni» che fa riferimento alla disfatta di Gerusalemme conquistata e distrutta il 587 a.C. In cinque carmi il profeta descrive il grande dolore causato dall’assedio, la cattura e la distruzione della città santa ad opera di Nabucodonosor, re di Babilonia. Esprime la pena profonda per la desolazione, la miseria, la confusione, la fame, realtà tutte intese come castigo divino per i peccati del popolo, dei profeti e dei sacerdoti. Nonostante il tenore fortemente drammatico, il libro termina con una nota di speranza: «Tu, Signore, rimani per sempre, il tuo trono di generazione in generazione. Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico» (Lam 5, 19-21). Nella storia del popolo eletto i profeti sono stati gli interpreti del disagio di Israele: «Ascoltate questa parola, questo lamento che io elevo su di voi, o casa d’Israele!» (Am 5,1). La Parola di Dio assicura che il Signore ascolta il lamento per l’ingiustizia (Gen 16,11), nel tempo del lutto, della prova (Es 2,24) e tiene particolarmente in considerazione il lamento dei poveri (Gb 34, 28) che diventa preghiera (Sal 5,2). Una esperienza significativa alla quale si possono rapportare situazioni analoghe di tutti i tempi, è la vicenda biblica di Rachele sposa di Giacobbe e madre di Giuseppe che muore nel dare alla luce il suo secondogenito, Beniamino (Gen 35,16-19). Il profeta Geremia si ispira al suo lamento prima per avere il dono della maternità e poi nel momento della morte nella generazione di una nuova vita, per dare consolazione e speranza agli Israeliti in esilio a Babilonia: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più» (Ger 31,15). Rachele di ieri e di oggi, piange per i figli, membri della sua famiglia, del suo popolo che per la sistematica distruzione dei valori, per le situazioni ambientali, climatiche e pandemiche, per l’esilio dalla verità e dalla luce, gli errori commessi per la fragilità umana, “non sono più”, sono morti o muoiono spiritualmente. È un dolore profondo ed un pianto amaro che solo Dio può consolare. Non bastano le parole condite di senso umano di partecipazione al dolore e di vicinanza. Molte volte è meglio il silenzio o qualche gesto di amore, una carezza, un sorriso. Analogo è il lamento ed il pianto di Gesù sulla città di Gerusalemme che ha rifiutato i profeti e che non ha ascoltato la sua voce. Ancora più struggente è il suo lamento per l’abbandono subito sulla croce finanche dal Padre a conclusione della missione salvifica nel mistero della morte, che diventa un grido con la consegna del suo spirito, parto di amore nel dolore acerbo della morte. Nel pianto c’è la speranza, nella conclusione c’è l’inizio. Sono molteplici e ripetuti i lamenti umani giustificati dalle difficoltà della vita, nella solitudine e nella sofferenza, nell’ingiustizia e nell’incomprensione, nella emarginazione e nella sopraffazione. Ogni occasione ed ogni particolare situazione diviene motivo per lamentarsi. Una appropriata cura somministrata dalla grazia dei sacramenti e con l’aiuto di una guida spirituale confortevole ed amabile, può aiutare a maturare una capacità di vita, di autodeterminazione e libertà che soffoca il lamento ed apre alla speranza. Quella che Gesù Cristo stesso ha promesso e che chiude l’intera Rivelazione: «Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Questa è parola di verità, non semplice conforto, non illusione né tranquillante, ma certezza di fede e di vita. P. Angelo Sardone

La roccia e la sabbia

Mattutino di speranza, 25 giugno 2020.
Nell’insegnamento evangelico roccia e sabbia sono due elementi comparativi alla saggezza ed alla stoltezza dell’uomo. Gesù, il Maestro, attingendo ai numerosi riferimenti disseminati nella Legge, nei Profeti e nei Salmi, li paragona all’ascolto della sua Parola ed alla traduzione pratica nella vita. L’uso che Egli ne ha fatto è di un alto valore didascalico e fine tratto sapienziale. In natura la roccia e la sabbia sono elementi che, tra le altre cose, si riferiscono alla costruzione di una casa. La sua edificazione e soprattutto la sua tenuta o meno, dipende dal luogo che si sceglie sul quale costruirla: la roccia, che si trova anche a profondità significativa per porre le fondamenta o la sabbia della superficie. La roccia dà stabilità ed è garanzia di tenuta alle fondamenta su di essa fissate, anche sotto la furia dei venti, delle tempeste, della pioggia straripante. Nel linguaggio biblico la roccia evoca l’acqua ed il miele che da essa scaturiscono. Dio è la roccia del cuore, roccia di rifugio, roccia eterna, potente salvezza, che rende sicuri i passi. La sabbia che non ha fondamenta e non può garantire se non qualcosa di momentaneo, rende inutile la fatica e vede inesorabilmente crollare tutto con le medesime condizioni ambientali e metereologiche. La roccia è dura e statica; la sabbia è molle ed instabile (cfr. Pro 27,3). Per quanto la pioggia possa assestarla e renderla più o meno compatta, la sua natura è granulosa e prima o poi col vento o con un urto si volatilizza e tutto ciò che in essa è stato fissato e sembrava apparentemente consistente, cade. I castelli di sabbia non sono quelli che abitualmente si costruiscono sulla riva del mare, trastullo di piccoli e grandi, a volte vere e proprie opere d’arte. Sono anche quelli che si costruiscono con la fantasia, l’entusiasmo immediato, una spiritualità evanescente, la mancanza di esperienza, l’orgoglio, la superficialità. La fiducia in Dio richiede l’abbandono in Lui e la costruzione della propria vita sulla roccia perché il fondamento possa tenere, aggrappato e saldato a ciò che è duro, stabile e sicuro. La manifestazione di una fede viva, sincera, duratura, è quella che traduce in opere quanto è affermato con la bocca. È il Signore che ci stabilisce sulla salda roccia del suo amore e della sua vita divina. Ma è anche l’uomo che consapevole del dono ricevuto e della possibilità a lui offerta, in risposta all’amore di Dio ed alla partecipazione della sua conoscenza, fa in modo che la casa della sua vita, delle sue certezze, della sua felicità, sia costruita, su progetto di Dio e con l’aiuto che viene da Lui e dai tecnici che Egli stesso propone, sulla roccia esemplificata dalla sua Parola che è «viva ed efficace» (Eb 4,12). Il parametro discriminante lo presenta Gesù Cristo stesso: l’ingresso nel Regno dei cieli è conseguente al compimento della volontà di Dio. Lo affermiamo e chiediamo ogni giorno nella preghiera insegnata da Gesù. Ma quanto è difficile credere ed essere perseveranti nella fede proprio perchè essa implica scelte coraggiose, durature, talora impopolari ma che garantiscono un cammino sistematico e la costruzione graduale di un edificio che va verso l’alto. Il facile entusiasmo spirituale, tipico dei neofiti, porta ad una forma di adesione spontanea, gioiosa ma che può rivelarsi momentanea e passeggera perché non ha i connotati di una conoscenza più profonda del Signore, di un approfondimento sistematico e continuo della dottrina, della giornaliera fatica che la fede stessa richiede. Tante volte si conosce il Signore per via di qualche forte esperienza spirituale emotiva, che rivoluziona la vita: un incontro provvidenziale, una confessione ben fatta, un pellegrinaggio sentito e commovente, una terribile sciagura, una forte emozione. Si entra in contatto con una realtà che offre protezione, che determina uno stato di ebrezza spirituale contagiosa, ma che può coprire con uno strato di passeggera emotività, un dramma interiore da risolvere, un vuoto da colmare, una ferita da suturare, un tumore spirituale da asportare. Si entra nel giro di una preghiera ed un affidamento a Dio che ha termini emotivi appaganti ma provvisori. Si entra finanche nella pratica di qualcosa di più impegnativo, nel contrasto con le forze del maligno e finanche nell’attuazione di cose straordinarie che possono sembrare miracoli. Ciò non basta anzi può diventare oggetto di discriminazione da parte del Signore. Il suo atteggiamento e le sue parole al riguardo sono terribili, molto forti ed anche disorientanti, fanno tremare: «Non ti ho mai conosciuto! Allontanati da me perché sei operatore di iniquità» (Mt 21,23). Questo avviene quando ci si basa solo sul sensazionale, sulla semplice emotività, sul “mi piace”, “ci sto bene” e facilmente si cerca di accomodare la pratica dura della fede al facile e temporaneo sentimento che può rivelarsi senza fondamento. L’iniquità nel senso biblico, è corruzione del pensiero, perversione di un atto, anche quando ha la parvenza di opera buona. Operatore di iniquità è chi semina zizzania, chi proclama false verità, chi è ipocrita ed inconcludente, chi va alla ricerca del sensazionale e dell’effimero, anche se compie opere apparentemente buone che talora servono solo a mascherare e coprire malvagità e perversione del pensiero. «Le vostre iniquità hanno scavato un solco fra voi e il vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto per non darvi più ascolto» (Is 59,2). Le iniquità portano via come il vento (Is 64,5), perché «Ogni peccato è iniquità» (1Gv 3,4). Se non saremo fondati sulla sabbia arida del nostro orgoglio e della superficialità anche spirituale, potremo stabilmente fondare la nostra vita e la nostra casa sulla roccia viva dell’amore di Dio, roccia da cui siamo stati tagliati (Is 51,1) e bere la bevanda spirituale da quella roccia che accompagna il cammino nel deserto della vita. Quella roccia è Cristo (1Cor 10,4). P. Angelo Sardone

San Giovanni piccolino

Mattutino di speranza, 24 giugno 2020.
Nel Battesimo si realizza una triplice configurazione. In Cristo diventiamo sacerdoti, re e profeti. Da ciò nasce un triplice “munus”, un dovere cioè che impegna il cristiano per tutta la vita a rendere a Dio il culto spirituale nell’esercizio del sacerdozio comune, a realizzare il servizio della carità come espressione di una vera regalità, a proclamare la Parola di Dio e diffonderla come un autentico profeta. La vocazione cristiana implica questi tre aspetti fondamentali entitativi e pratici nella vita del battezzato. In particolare la Parola di Dio fatta carne in Gesù Cristo, esige la proclamazione fatta con le labbra ma ancor più la testimonianza seria, convinta e coerente di vita, nelle variegate circostanze dell’esistenza umana. L’annunzio, per essere efficace, richiede la testimonianza; la testimonianza implica la coerenza; la coerenza esige la fedeltà e la perseveranza anche dinanzi alle difficoltà. Annunzio, testimonianza e coerenza sono le caratteristiche peculiari della vita e della missione del Precursore del Messia, S. Giovanni il Battista, soprannome che le pagine evangeliche attribuiscono al figlio di Zaccaria ed Elisabetta, per via del suo ministero penitenziale al fiume Giordano. Egli è l’ultimo dei profeti del Vecchio Testamento ed il primo del Nuovo nel senso in cui questo termine è inteso. Anzi è il più grande dei profeti di Israele, perché ha potuto vedere ed additare l’Agnello di Dio, oggetto delle sue profezie e ragione della sua esistenza e missione (Mt 11,7-15; Gv 1,19-28). Egli stesso attualizzando quanto già il profeta Isaia aveva detto, si autodefinisce «voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,23), voce di Gesù Cristo, Colui che è la Parola. Solo di lui, oltre che di Gesù e di Maria, la Liturgia ricorda e celebra solennemente il giorno della natività, collocandola al 24 giugno, precisamente tre mesi dopo il 25 marzo, giorno nel quale si celebra l’annunzio dell’arcangelo Gabriele a Maria di Nazaret, alla quale, tra le altre cose, rivelava la gravidanza al sesto mese della cugina Elisabetta. Oggi è dunque il compleanno di Giovanni Battista. Come è rilevato nei Vangeli egli è figlio di Zaccaria, sacerdote del Tempio di Gerusalemme e di Elisabetta, una discendente della casa di Aronne, la tribù sacerdotale d’Israele. La sua nascita e la sua chiamata, come quella di alcuni grandi personaggi biblici, si colloca in un contesto di palese contraddizione: l’età avanzata dei suoi genitori ed in particolare la sterilità della madre. Nel compimento del servizio sacerdotale, durante la settimana nella quale la classe di Abia era impegnata al tempio, Zaccaria si imbatte timoroso nell’incontro col mistero attraverso una “angelofania”, cioè la manifestazione di Dio attraverso l’angelo Gabriele, lo stesso che poi visiterà Maria a Nazaret. L’angelo gli rivela l’esaudimento da parte del Signore della loro accorata preghiera e la concezione fuori dell’ordinario di un figlio da parte della moglie Elisabetta che tutti dicevano sterile. La confusione naturale dovuta alla gioia sorprendente di diventare padre ed alla particolare condizione della moglie, agita gli equilibri e mette in confusione la mente di Zaccaria che fortemente impacciato e sorpreso, rivela una mancanza di fede piena e fiducioso abbandono all’onnipotenza di Dio. Per questo viene privato della parola fino a otto giorni dopo la nascita del figlio quando scriverà su una tavoletta il nome a lui riservato, Giovanni, che significa “Jahwé è favorevole”. Analogamente la vergogna di Elisabetta, prima per la mancanza di un figlio e poi fino al quinto mese, per la gestazione di una creatura nel grembo ormai avvizzito per la ragguardevole età, si tramuterà in testimonianza gioiosa della potenza di Dio e della sua misericordia, riverberando l’altissima lode a Dio nella beatitudine pronunziata a favore della cugina Maria venuta ad accudirla negli ultimi tre mesi, per la sua fede nell’adempimento di quanto il Signore aveva detto. Un muto reso tale dalla mancanza di fede e la sterilità di una donna avanzata in età ma sempre fiduciosa in Dio con una costante preghiera, si tramutano nella proclamazione del “favore” di Dio accordato alle creature e nella fecondità della fede operativa della quale sarà strumento e segno Maria e la Chiesa. “Giovannino”, come la letteratura artistica definirà il Battista soprattutto nella ritrattistica accanto al Bambino Gesù, erediterà dai suoi genitori ed acquisirà da loro questi valori che lo renderanno «il più grande tra i nati di donna» (Mt 11,11), e concentrerà nella fedeltà alla missione ricevuta di evangelizzatore e preparatore della strada al Messia con la crudezza del suo insegnamento e la eroica coerenza proclamata con le parole e gli insegnamenti e coraggiosamente tradotta nella vita concreta nel cibo, nel vestiario, nelle opere, fino alla testimonianza eroica nell’ingiusto martirio subito. Non è facile oggi trovare o essere un “Giovanni Battista” in un’epoca in cui regna l’incoerenza, la sopraffazione, il facile accomodamento ad ogni vento di dottrina, l’egoismo, l’indifferenza ed anche la paura di mostrarsi cristiani con le parole, il nutrimento, l’abbigliamento e soprattutto la coerenza tra fede e vita. La sequela di Cristo richiede oggi più che mai dedizione seria e continua, per proclamare in maniera franca e coraggiosa con le parole e con le opere, la verità e l’amore di Cristo, quali testimoni credibili del Vangelo. P. Angelo Sardone

Pensare, parlare, agire

Mattutino di speranza, 23 giugno 2020.
La qualità della vita può essere determinata dalla concordanza e subordinazione di tre verbi: pensare, parlare, agire. Uno dei primi Padri della Chiesa, S. Gregorio di Nissa li definisce elementi dichiarativi e distintivi della vita del cristiano. Il pensiero, dinamico e sorgivo, si configura nella mente ed è suo prodotto; le parole esprimono il pensiero con termini convenzionali accessibili alla comprensione; le azioni concretizzano in opere i pensieri e le parole. La storia del pensiero umano è caratterizzata sin dalle origini da alcuni particolari cosiddetti “pensatori” che elaborano riflessioni, concetti, definizioni, che determinano nel bene o nel male la buona qualità del vivere comune e la retta conduzione della società e della vita umana e relazionale. Tutti siamo pensatori. Un pensiero corretto ed onesto è votato al bene e produce il bene; un pensiero egoistico ed opportunista guarda l’utilità propria e non si cura degli altri, anzi considera gli altri antagonisti e nemici. Ci sono pensieri di pace e pensieri di guerra ed odio; pensieri buoni e di bene e pensieri cattivi, oltraggiosi ed offensivi; pensieri terreni e pensieri celesti che si interfacciano con la realtà divina. Molte volte vi è diversità di pensieri tra noi e Dio. Egli stesso lo dichiara: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,8-9). I pensieri di Dio guardano esclusivamente al bene dell’uomo e sono stimolo perché i pensieri dell’uomo guardino al bene e generino il profitto proprio ed altrui. L’uomo non è gettato nel cosmo ed affidato al suo determinismo, ma è sempre presente e vivo nel pensiero di Dio. «Io occupo un posto mio nei pensieri di Dio, nel mondo di Dio» constatava il beato cardinale H. Newman. La parola è un termine convenzionale orale o scritto con il quale si dà un’informazione, si esprime un concetto, si traduce un’idea. È la forma di comunicazione più arcaica e naturale adoperata da Dio e dall’uomo. Con Dio ed in Dio la parola ha un effetto creativo. Il testo sacro della Genesi lo annota: «Dio disse sia la luce e la luce fu» (Gen 1,3). Nel corso del tempo e della storia Dio ha intessuto le sue relazioni di amore e di guida del popolo attraverso la sua Parola, a cominciare da Abramo, Mosè, i suoi primi interlocutori e poi i sacerdoti, i re, i profeti che già nel nome evocano la loro vocazione di “portaparola” di Dio. La storia delle grandi vocazioni bibliche è contrassegnata da un rapporto verbale incisivo, a tu per tu con Dio che rende i suoi interlocutori “servi della parola”. «Dio ha parlato, chi non profetizzerà» afferma Amos (Am 3,8). Dopo aver parlato in tanti modi servendosi di persone ed avvenimenti, alla fine Dio ha parlato attraverso il suo Figlio Gesù (Eb 1,1). Il nome proprio che S. Giovanni evangelista attribuisce a Gesù, nome che completa quelli enumerati nel Vecchio Testamento è “Logos” in greco, “Verbum” in latino, “Parola” in italiano. Gesù è la Parola per eccellenza, parola di verità e di luce, termine ultimo della Rivelazione di Dio. È sapienza, amore, redenzione, risurrezione, via e vita. «Lazzaro vieni fuori», dice al suo amico e questi risuscita da morte (Gv 11,43-44). «Taci, calmati» sgrida il vento e dice al mare in tempesta e le onde si placano (Mc 4,39). «Nel nome di Gesù Cristo alzati e cammina» dice Pietro allo storpio al Tempio di Gerusalemme (At 3,6) e lo storpio balza in piedi e si mette a camminare. Le parole hanno il loro peso. Una potrebbe essere insufficiente; due soverchie. Producono effetti diversi per come sono proclamate, accolte, ascoltate. Le parole si traducono in azioni. Un comando sbagliato, un pensiero delirante ed opportunista crea tensioni, scatena una guerra, può portare alla morte. «In genere le cose migliori sono anche le più fragili. È troppo fragile quello che si spezza con una sola parola o che va in rovina per la più piccola offesa al fratello» (S. Colombano). È molto importante che nella vita ci si sappia destreggiare adeguatamente tra pensieri, parole ed opere che costituiscono oltre che la materia del bene, l’oggetto del peccato da affidare al Signore nel mistero della Riconciliazione. «Le nostre orecchie sentono le nostre voci, le orecchie di Dio si aprono ai nostri pensieri», diceva S. Agostino. Un pensiero dolce, affabile, gentile, genera attenzione, concordia, accoglienza, condivisione e si traduce in gesti ed azioni di amore. Un pensiero debole, mellifluo, liquido, un pensiero cattivo, turpe e malefico può generare parole insulse, vuote, riottose e tradursi in azioni altrettanto malefiche, peccaminose e dannose. Tante persone prima agiscono e poi pensano e non sempre le loro azioni sono costruttive soprattutto quando sono determinate da pensieri di vendetta e sopraffazione, egoismo, dominio, superficialità, lussuria, orgoglio. Se vogliamo che la qualità della vita cristiana sia di valore è indispensabile coniugare il pensiero con la parola, la parola con l’azione. Dio che guarda, che vede nell’intimo, scruta e giudica i pensieri; accoglie l’azione buona, si accontenta di questa anche quando non è rifinita o conclusa, ricompensa abbondantemente col cento per uno. P. Angelo Sardone

Le memoria

Mattutino di speranza
22 giugno 2020
La memoria è un archivio nel quale tutto si raccoglie, tutto è conservato. È un nastro o un disco sul quale tutto viene inciso, un libro bianco nel quale tutto si scrive e nel quale tutto si può leggere. Può essere viva o labile, evanescente o scattante, fresca o appiattita. La sua tenuta varia con l’età. Si arricchisce giorno per giorno di contenuti nuovi, di dati che si interfacciano con quelli residenti e li completano, li emendano, li integrano. La memoria è una componente essenziale della vita: un uomo senza memoria è una persona senza tempo, né passato, né prospettive presente, né futuro. Il presente è frutto di ciò che è stato e proiezione di ciò che sarà. La memoria storica conserva gli avvenimenti del passato e nella maniera in cui viene rivisitata e consultata, diventa, come diceva Cicerone, “maestra di vita”. Si dice che gli anziani vivono di memoria. Magari non ricordano quanto hanno fatto oggi, ma tengono a mente ciò che è avvenuto nel passato. Il ricordo, positivo o negativo e la sua riproduzione verbale costituisce per loro non solo un salto nel passato rivissuto con nostalgia ma anche una eredità che si chiama esperienza, da donare a chi è più giovane. Il vettore della memoria è la mente che il grande filosofo Aristotele definiva «tabula rasa in qua nihil est scriptum», ossia una tavola, una lavagna sulla quale nulla è scritto. Con il processo di razionalità, di autodeterminazione e di maturità, un invisibile raggio laser incide puntualmente emozioni su questa tavola, sensazioni, situazioni, elementi di gioia e di dolore, di delusione e speranza, frutto ogni cosa dell’esperienza. Non vi è nulla infatti nell’intelletto e nella mente, che prima non sia stato, che non sia passato attraverso i sensi. Così sentenziavano gli antichi. La mente si arricchisce e deposita il tutto nella memoria. Il ricordo del passato e la memoria sono un dovere ed una necessità. Un dovere che richiama alla mente la situazione personale carica di responsabilità positiva o negativa che sia, ed anche una necessità per purificare, trasformare, cambiare, guardare avanti. Non sempre l’uomo se ne avvede. Nella vita spirituale la memoria è un deposito costantemente aggiornato di avvenimenti e situazioni di vita che si stabiliscono nei rapporti con Dio, con se stessi, con gli altri. È fonte di contemplazione e ricordo, trasformazione e cambiamento. Attingere ad essa significa dare un senso nuovo e diverso al presente in vista del futuro. Ci portiamo nella mente e nel ricordo della vita passata quello che siamo stati, ciò che abbiamo compiuto nel bene o nel male. Questo peso fa avvertire e provoca tensione, gioia, delusione, disgusto, bisogno di purificazione e desiderio di cambiamento ed infine serenità. Il profeta Davide nel salmo 50, il salmo penitenziale per eccellenza, riproduce la sua situazione passata e la piena coscienza del suo peccato quando afferma: «Il mio peccato mi sta sempre dinanzi… quello che è male agli occhi tuoi io l’ho fatto» (Sal 50, 6). Ri-conoscere il passato significa ricordare, nel senso di riportare alla mente e far emergere tutto ciò che fa parte di un vissuto a volte nascosto o volutamente dimenticato. Una esperienza presente, uno stimolo visivo o uditivo, una sensazione emotiva e spirituale fa ritornare alla mente sensazioni e situazioni pregresse. Un avvenimento traumatico del passato difficilmente viene cancellato fino a quando la terapia psicologica ed umana e la grazia della misericordia divina e del perdono che viene da Dio non agisce radicalmente e può cambiare la vita. L’intervento purificatore, con la collaborazione della propria responsabilità e coscienza personale, è opera della grazia di Dio mediata attraverso la richiesta sincera del perdono con un atto di dolore perfetto, e l’opera sacramentale della riconciliazione. La grazia fa intravvedere le ferite, le lava, le fascia, le sutura e poi come d’incanto esse possono sparire. Fino a quando questo non avviene, si porteranno nella mente, nella coscienza e nel corpo le ferite e le conseguenze drammatiche di pensieri, parole, azioni che hanno reso torbida la vita e l’hanno caricata di pesi gravosi. Il processo di sublimazione è opera di Dio e si realizza attraverso la grazia che fa nuove tutte le cose e cancella le colpe. «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). Ma è anche affidato alla responsabilità singola, responsabilità sempre attuale, che può determinare la qualità nuova della vita. S. Giovanni Paolo II a conclusione del secondo Millennio, in un clima di revisione penitente degli errori della storia, nella Chiesa e nella Società, delle colpe e responsabilità personali e comunitarie, più volte parlava di “purificazione della memoria”, indispensabile per andare avanti con maggiore fiducia in Dio ed in se stessi. La memoria è uno scrigno prezioso e carico. Le chiavi sono prima di tutto nelle nostre mani. Se poi diamo la possibilità a Dio attraverso la mediazione del sacerdote, guida, fratello e medico dell’anima, consegnando a lui le chiavi della nostra anima ed accompagnandolo nel cammino di scoperta di noi stessi e di introduzione nella coscienza, gli permetteremo di aprire il forziere nascosto nell’intimo di noi. Sarà lui il primo a rimanere incantato dinanzi a tanta preziosità nascosta agli occhi degli altri, gioielli e diamanti di valore insigne, ma scorgerà anche contraddizioni, lacerazioni, ricordi ingialliti, vecchie cose che provocano solo putridume e fetore e che devono essere asportate. La grazia sacramentale ed il suo farsi carico delle nostre sofferenze e miserie permetterà a ciascuno di non sentirsi solo, ma di essere accompagnato più speditamente nel cammino verso Dio, che comincia da un serio e deciso cammino dentro di noi. P. Angelo Sardone

S. Luigi Gonzaga, modello di purezza per la gioventù

Mattutino di speranza
21 giugno 2020
Il giardino di Dio è ricolmo di fiori colorati e profumati. Tra essi si distinguono i gigli. Con il loro profumo intenso ed il colore bianchissimo dei petali richiamano la bellezza ed il valore della purezza della mente, del corpo, della vita. Il giardino dei Santi, uomini e donne, piccoli e grandi, ricchi e poveri, laici e consacrati, fiori variegati che si possono ammirare e raccogliere nella Chiesa dove sono nati e coltivati per essere poi trapiantati in cielo, è ricco di gigli. Dio ha configurato la creazione dell’uomo in un giardino nel quale, con la varietà degli alberi, dei frutti, dei fiori, ha voluto esemplificare il suo ciclo vitale dalla piantagione, alla crescita, alla raccolta dei frutti. Il seme della vita è stato da Lui destinato ad un terreno che l’accoglie, lo nutre, lo fa spuntare e l’affida al calore del sole ed al vigore nutritivo della pioggia. Man mano che cresce come un fiore, l’attenzione costante e perseverante dell’agricoltore e la mano esperta del potatore, provvedono ad accompagnare lo sviluppo sistematico prima dello stelo, poi delle foglie, fino alla maturazione ed alla raccolta del frutto. La vita spirituale ha un processo pressocché analogo. Il Signore immette nel grembo fecondo della donna, a seguito di un atto di amore e di reciproca donazione con l’uomo, il seme della vita che dà forma e vigore al corpo umano. Esso si configura in brevissimo tempo negli elementi che contraddistinguono sin dal concepimento, il suo essere, la sua persona, la sua dignità. La nascita alla luce è come lo spuntare dal silenzio e dal buio rassicurante e protetto del grembo materno e l’immersione nella realtà della terra con gli elementi che assicurano la crescita: l’aria, la luce, l’acqua, il nutrimento. Il sacramento del Battesimo apre alla vita spirituale e colloca il nuovo figlio di Dio, reso tale nel mistero della morte e risurrezione di Gesù, nel giardino delle virtù e nel percorso di santità affidato alla sua responsabilità ed al ministero santificante della Chiesa. Tante volte nell’immensa sua fantasia di amore, il Signore si diverte quasi ad immettere nella vita di alcune persone che rende perciò uniche e straordinarie, elementi sorprendenti di risposta al suo amore e di realizzazione della propria esistenza. Non ci sono solamente i geni dell’arte, della scienza, della sapienza umana, dotati di intelligenza straordinaria e forniti di talenti fuori della normalità nella interpretazione delle leggi della natura e nella loro esemplificazione per il bene dell’umanità. Ci sono anche i geni della santità, dotati sin dalla tenera età di elementi particolari finalizzati ad un percorso diverso, con la possibilità di far diventare eroico e straordinario tutto ciò che è normale. Mi hanno sempre affascinato le note storiche e documentali che fanno da corredo alla vita dei Santi di tutti i tempi ed attestano il cammino di crescita e progresso in Dio. Oggi torna alla mente particolarmente la testimonianza di Luigi Gonzaga, un santo giovane, ricco e nobile di casato, dotato di intelligenza, di umanità e soprattutto di quella “sapienza dall’alto” ha contaminato l’intera sua vita. Non è normale umanamente che un fanciullo di appena 10 anni coltivi pensieri di amore grande per Dio e la Vergine Maria fino ad affidare loro il suo corpo, la sua vita in un ambiente particolare e difficile come quello di una corte nobiliare immersa nella vita mondana, con interessi di prestigio e di potere, con vistosi limiti umani e spirituali, compresi i tanti pericoli, orientando invece la propria vita alla preghiera, alla penitenza, al distacco dalle cose del mondo fino alla rinunzia al marchesato a Mantova ed alla scelta della consacrazione a Dio nella Compagnia di Gesù a Roma. La sua esistenza fu immersa in Dio, come egli stesso confessa: «con la mente sempre raccolta in Dio, perché questo già per l’uso mi è quasi diventato connaturale, e vi trovo quiete e riposo e non pena». Luigi tesseva la sua vita in Dio, ma non viveva di aria o di fantasiose ed oniriche elucubrazioni spirituali. Aveva grandi interessi per gli studi della teologia, per la condivisione della vita comunitaria, per la carità verso i bisognosi ed i tribolati. La prova ultima di un’autentica santità fatta di servizio eroico di carità verso i fratelli, gliela offrì il Signore stesso nelle vicissitudini storiche ed ambientali della città di Roma di fine 1500 quando si trovò ad affrontare una dopo l’altra le tragedie della siccità, la carestia, l’epidemia di tifo e la peste. Impegnato personalmente nella cura dei malati, egli contrasse la peste che lo portò inesorabilmente alla morte ad appena 23 anni il 21 giugno 1591, autentico martire della carità. La sua santità non è affatto «inutile e dannosa a imitarsi» come scrisse in maniera sprezzante l’anticlericale Gioberti (1801-1852). Deve essere invece proposta, ed io lo faccio con semplicità e coraggio, come splendida testimonianza di sequela di Gesù e di imitazione delle sue virtù. Lo dico soprattutto ai giovani di oggi certamente dotati di conoscenza, intelligenza e capacità straordinarie, ma talora confusi, spaesati e deviati dal retto intendimento di ciò che è vero, giusto, onesto, pulito. Dinanzi a tanto consumo di materialità, di sporca verbosità e violenza comportamentale, di culto egoistico dell’immagine attraverso i moderni mezzi di comunicazione e dei social, di esposizione del proprio corpo spesso vittima di perversioni e micidiale formazione di pessimi maestri del pensiero e di prassi utilitaristica e godereccia, la testimonianza di un santo giovane, bello, intelligente, affabile ed attraente, può essere una grande risorsa moderna non solo di santità ma di sanificazione delle coscienze e di incitamento a fare altrettanto. «Me ne vado felice» scrisse il Santo alla madre, conscio della prossima conclusione della sua vita. Saremo sicuramente felici anche noi di vivere bene se nelle nostre famiglie, nei nostri ambienti, come diceva S. Annibale, «regna l’illibatezza dell’anima e dei costumi, che sia immacolata la mente, immacolato il cuore, immacolati gli affetti» P. Angelo Sardone

Gli occhi

Mattutino di speranza

18 giugno 2020

 

Gli occhi sono le finestre dell’anima. Da essi traspare l’intimo. Sono organi di senso dell’apparato visivo comuni agli animali ed agli uomini. Percepiscono gli stimoli luminosi esterni e li trasmettono ai centri nervosi che li traducono in immagini. Sono recettori di luce, di informazioni, filtro attraverso il quale passa la realtà esterna per raggiungere il corpo in alcuni punti nevralgici, il cervello, il cuore, lo stomaco, gli arti. Questi organi, così interessati, reagiscono con modalità e ritmi diversi. Con gli occhi in fronte si vede ciò che sta fuori di noi. Con gli occhi del cuore si scorge e si penetra l’animo, l’intimo, si afferrano i pensieri, si colgono i sentimenti, si legge anche ciò che è nascosto. La rappresentazione iconografica divina spesso è quella di un triangolo con al centro un occhio col quale Dio vigila sulla realtà creata: «l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (Sal 33,18). La Sacra Scrittura ha una vasta gamma di riferimenti e qualificazioni dell’occhio e degli occhi: “penetranti, di compassione, occhio vigile, occhio che scruta, occhio che piange, che tormenta, occhio superbo, occhio invidioso, cattivo, contento”. Gli occhi esprimono e sintetizzano la gioia, prima ancora del sorriso, il dolore e la sofferenza prima ancora del pianto. La letteratura sapienziale afferma che «l’occhio desidera grazia e bellezza» (Sir 40,22), «ammira la bellezza del candore di Dio e il cuore stupisce nel vederla fioccare» (Sir 43,18). Ogni cosa, infatti ha in sé una bellezza, ma non tutti riescono a vederla. Gesù definisce l’occhio “lampada del corpo”, ed annota le sue caratteristiche: se «l’occhio è semplice, anche tutto il corpo è luminoso; ma se è cattivo, anche il corpo è tenebroso» (Lc 11,34); se è di scandalo bisogna addirittura cavarlo (Mt 5,29). Chi pretende di vedere una pagliuzza nell’occhio dell’altro, non si rende conto che, iperbolicamente, ha una trave nel suo (Lc 6,41). Componente essenziale dell’occhio è la pupilla, il foro centrale dell’iride, porta d’ingresso della luce all’interno del bulbo oculare: si dilata per ricevere maggiore luce; si restringe in presenza di molta luce. Il Signore custodisce i suoi eletti come la pupilla del suo occhio (Dt 32,10 e Sal 17,8). Prodotto tipico degli occhi sono le lagrime che sgorgano e irrigano le guance e le gote. Sono lagrime di dolore quando esprimono sofferenza, delusione, malessere; sono lagrime di gioia quando esprimono la contentezza, l’appagamento. La recente pandemia, ha imposto per necessità di salvaguardia dal contagio virale, l’utilizzazione della mascherina per proteggere la bocca ed il naso. Restano visibili soltanto gli occhi. Anche se il viso e l’identità della persona sono parzialmente velati, rimangono in bella vista gli occhi, guardando i quali si può riconoscere la persona. Gli occhi vedono, parlano, implorano; sono occhi attenti, vispi, gioiosi; ma anche occhi spenti, imploranti; occhi freddi e di ghiaccio; occhi che si abbassano per vergogna dinanzi ad un rimprovero o una colpa, occhi che si arrossano nel pianto, occhi di pudore che generano rossore sul viso; occhi stanchi, delusi, occhi addolorati. Tante volte l’occhio, sia quello naturale che quello spirituale, per malattie congenite o acquisite per l’età, le cattive abitudini, gli incidenti di percorso, ha bisogno del rinforzo delle lenti. Esse rafforzano la capacità di vedere e correggono. Nella dimensione spirituale esse sono la preghiera che è luce, la mortificazione dei sensi che diventa correttivo delle passioni e delle cattive inclinazioni, la Parola di Dio che fa vedere la verità ed orienta il cammino lontano da ciò che è vistosamente male. S. Giovanni apostolo nel libro profetico dell’Apocalisse presenta Gesù con occhi fiammeggianti di fuoco (Apc 2,18) e gli esseri viventi costellati di occhi davanti e di dietro (Apc 4,6-8).  Nella sua Prima Lettera, poi, tra le cose del mondo che non provengono da Dio, evidenzia la “concupiscenza degli occhi” che proviene dal mondo (1Gv 2,16). Essa si identifica con la malsana curiosità sia verso il mondo reale che quello della fantasia, a volte in un intreccio sfrenato di godimento sensuale e sensibile, eccedente un sano e naturale approccio, senza alcun frutto spirituale, passando attraverso il desiderio smodato di vedere, sentire, e conoscere tutto ciò che succede nel mondo, avvenimenti segreti, scabrosi. Da questa malattia può liberarci il Signore al quale chiediamo di donarci “occhi limpidi che vincano le torbide suggestioni del male, un cuore puro fedele nel servizio, ardente nella lode”, come canta la Liturgia. Diventiamo tutt’occhi per sapere cosa fare e dove andare e, soprattutto, per vedere le opere di Dio e lodare il suo nome in eterno, perchè chiunque veda le nostre opere buone, glorifichi il Padre che è nei cieli. P. Angelo Sardone.

Santità e grazia

Mattutino di speranza
17 giugno 2020
Il Signore dona e custodisce in noi la santità e la vita. Entrambe provengono dalla sua grazia. Entrambe si sperimentano sulla terra e si godono in pienezza in cielo. La vita cristiana è un itinerario di santità; non avrebbe valore se non fosse tale. Per quanto l’uomo ci pensi o no, la sua esistenza non è vuota, è un insieme di doni ed un impegno responsabile a farli fruttificare con la docilità, l’obbedienza alla fede, la fiducia in Dio ed in sé stesso. Ogni dono di Dio è per Lui oggetto di custodia attenta e gelosa perché nulla vada perduto di ciò che ha creato. Se sono importanti le cose, gli animali, le piante, gli astri del cielo, a maggior ragione ancor di più lo è l’uomo posto nell’universo come dominatore e signore di «tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari» (Sal 8, 8-9). La custodia che ha Dio nei confronti dell’uomo si riverbera in quella che deve avere l’uomo nell’uso corretto delle cose create. Dio ha conferito all’uomo sin dalla creazione il potere di dare il nome alle cose, alle piante, agli animali, e quindi di assoggettarle, perchè nella loro utilizzazione realizzino le finalità per le quali sono state create e servano all’uomo per garantirgli sostentamento ed una vita dignitosa e serena. Dio si è legato con un patto di amore, infranto però dall’uomo a causa della sua superbia, della “dura cervice” e del desiderio contratto col peccato, di essere lui “centro e misura di tutte le cose”, secondo la storica asserzione del filosofo greco Protagora di Abdera, soggetto incontrastato di giudizio della realtà, del modo di essere e del suo significato. Dinanzi alla disfatta ciclica dell’uomo, dalla corruzione a causa della malvagità, alla torre di Babele, dalla rivolta contro i valori naturali con la perversione di Sodoma e Gomorra, al desiderio di autonomia da qualunque nesso vincolante, Dio ha risposto sempre con la sua alleanza attraverso molteplici segni: l’arcobaleno, dopo il diluvio universale, la circoncisione a partire da Abramo, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, i comandamenti dati a Mosè, la legge scritta nel cuore umano con i profeti, fino al patto della nuova ed eterna alleanza sancito col sangue di Cristo sull’altare della croce. L’ingiunzione di Dio «Siate santi, perchè io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lv 19, 2) vede Dio in prima persona attivo ed attento a custodire in noi la sua santità senza ledere la libertà umana, ma orientandola al bene ed al vero. La santità cammina di pari passo con la vita, non come entità astratta, ma come realtà dinamica, coinvolgente ed operativa che porta pace nella tribolazione, ristoro nella fatica, consolazione nel dolore, speranza nella incertezza, verità nel dubbio e nell’errore. Dio rispetta la libertà dell’uomo come valore assoluto e si china a guardare sulla terra e nei cieli anche la scelta sciagurata che egli fa del male, sotto il dominio del peccato. Dio non vuole il male. È l’uomo che sceglie di farlo con consapevolezza e irresponsabilità. Nel suo grande amore Dio concede all’uomo il tempo per pentirsi e veglia sulla sua condotta anche quando cammina nelle tenebre più fitte, quando la libertà concepita e vissuta in forma esagerata diviene libertinaggio, prurito continuo di novità, delirio di onnipotenza, assuefazione al male. Lo strumento di salvezza derivante dalla infinita misericordia di Dio e dal mistero della morte di Cristo si chiama “grazia santificante” che alberga nel cuore dell’uomo e gli viene donata attraverso i sacramenti che di essi sono “mezzi efficaci”. La grazia rende participi della natura di Dio, figli ed eredi di Dio, inabitazione della santissima Trinità. La grazia è la vita di Dio nell’uomo, rendendolo «capace di credere in Dio, di sperare in lui e di amarlo per mezzo delle virtù teologali; gli dà la capacità di vivere e agire sotto la mozione dello Spirito Santo e dei suoi doni; gli permette di crescere nel bene per mezzo delle virtù morali» (Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1266). La grazia è un modo concreto col quale «la persona di Gesù attraverso la sua natura divina e la sua natura umana prende la nostra persona umana e la inserisce nella vita divina» (E. Medi). È un grande dono ed anche una grande responsabilità che deve poter regolare il cammino umano e spirituale a tutte le età ed in tutte le condizioni sociali e religiose, senza sbavature devozionistiche che spesso possono tradursi in slanci ed impennate paradisiache che si alternano con picchiate infernali e depressive. Il pericolo diviene ancora più grave quando non ci si rende conto del male che si fa a stessi con l’illusione di essere quasi perfetti, di giustificare ogni cosa in forza dell’età, delle condizioni familiari e sociali, di una errata e personalistica interpretazione della legge di Dio, senza sapere di stare forse a percorrere la via spaziosa e larga che porta alla perdizione. La grazia che è luce, irrompe nel buio fitto dell’errore e fa avvertire il sibilo dolce e suadente della voce di Dio che penetra anche nella più acuta sordità. P. Angelo Sardone

Dio veglia su di noi

Mattutino di speranza 16 giugno 2020
Qualunque cosa facciamo, Qualcuno sempre veglia su di noi. Non è fatalismo, né superstizione ma concezione di fede e conseguenza dell’affidamento a Dio. L’uomo, proprio per la sua composizione di anima e corpo, di mente e di cuore, di pensieri ed operazioni, di chiarezze e contraddizioni, esprime la sua identità di creatura finita e limitata, in termini di subordinazione a Dio e sviluppa un dialogo con Lui in risposta alla sua apertura d’amore e di giustizia infinita. Il testo sacro della Genesi in un suggestivo quadro antropomorfico, cioè adoperando immagini e categorie umane comprensibili alla mente, presenta Dio Padre come interlocutore dell’uomo e della donna nel Paradiso terrestre dove amabilmente passeggia alla brezza del mattino. Tutto è limpido e sereno fino al momento del peccato. Tutto si scompagina con l’iniziativa dell’orgoglioso ed astuto serpente, visibile materializzazione del demonio, che abbaglia ed acceca di altrettanto desiderio di grandezza ed autonomia, la mente della donna e, di conseguenza, dell’uomo. Essi cedono dinanzi alle lusinghe del diavolo e cadono inesorabilmente nella disobbedienza, venendo meno all’unica proibizione di Dio di non toccare il frutto dell’albero che stava in mezzo al giardino, l’albero della conoscenza del bene e del male. Immediatamente scoprono di essere nudi: i loro occhi innocenti, la loro mente pura, i loro comportamenti trasparenti sono intorbiditi ed offuscati dall’avvento del male che li fa sentire pieni di vergogna l’uno verso dell’altro. A maggior ragione si sentono tali nei confronti di Dio del quale sentono i passi e si nascondono tra gli alberi. Per la prima volta il dialogo che fino allora era stato intimo e profondo, carico di verità e condivisione di amore e felicità piena, che non aveva avuto bisogno di mediazione di parole e di ingiunzioni proibitive, perché si esprimeva con gli sguardi, col sorriso, con la gioia di appartenenza e non di dipendenza opprimente, diventa interrogazione da parte di Dio per la scoperta dell’errore e la ricerca della verità, reciproca accusa tra l’uomo e la donna. Seguono parole precise: «Dove sei?» dice Dio. «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto», risponde l’uomo. «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?» incalza Dio, «Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato», risponde l’uomo scusandosi. «Che hai fatto?» chiede Dio alla donna. «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» conclude la donna. Dialogo drammatico con formula autoaccusatoria da parte di entrambi i progenitori pur nel tentativo di schermirsi (Gen 3, 1-19). Da allora in poi l’autore sacro li denomina Adàm (fatto di terra, o meglio terra) ed Eva (madre di tutti i viventi). Provvide lo stesso Creatore a far loro delle vesti di pelle al posto delle cinture di foglie di fico che coprivano le loro nudità, a significare che così Dio rendeva sensibile ed operante dentro di loro la coscienza, il «nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (GS 16) e stimolava il santo timore. Coscienza e timore sono indispensabili per crescere, per vivere bene, per difendersi dal male. La coscienza morale, in tensione verso il vero bene, adoperando i mezzi donati da Dio, la ragione e la legge divina, deve formarsi rettamente e nella verità perché l’uomo possa obbedirle e scegliere in maniera adeguata ciò che deve fare e ciò che non deve fare. La retta coscienza emette la sentenza sul male commesso e chiama l’uomo ad un pegno di conversione e speranza. Non sempre l’ignoranza ed i giudizi erronei su fatti, situazioni personali ed altrui, sono esenti da colpevolezza. Ad una coscienza erronea e cieca per l’abitudine al peccato, deve sostituirsi una coscienza buona e pura illuminata dalla fede sincera. La retta coscienza si forma sulla scorta della Parola di Dio che è luce e della preghiera. Il rapporto di amore con Dio, libera dalla paura e rende l’uomo confidente, senza timore perché «nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18). La cura e l’attenzione di Dio sopra gli uomini, che bene si esprime col verbo “vegliare”, cioè stare sveglio, vigilare, proteggere, mira a spingerci al bene ed evitare il male onde «condurre una vita serena e tranquilla in tutta pietà e dignità» (1Tim 2,2). Dio veglia su di noi, ma anche e soprattutto noi dobbiamo stare attenti ed agire secondo la retta coscienza, perché la pratica di vita cristiana nelle opere concrete, sia sempre in assonanza con quanto viene proclamato con le labbra. P. Angelo Sardone

Il ricordo dei genitori

Mattutino di speranza

15 giugno 2020

 

Ogni giorno, al risveglio, aprendo gli occhi alla vita, il pensiero corre a Dio che ti ha creato per lodarlo, benedirlo, ringraziarlo. Corre anche a chi ti ha dato la vita. In entrambi i casi si tratta di un bisogno naturale ed un dovere spontaneo di riconoscenza istintiva che si appropria dei pensieri, fa luce sul cammino si traduce in preghiera. A Dio si deve l’onore e la gloria con l’offerta del sacrificio di lode, perché “a chi cammina per la retta via Egli mostra la sua salvezza” (Sal 49). Ai genitori, e particolarmente alla mamma, si deve la gratitudine più profonda, sensibile e naturale perché per mezzo del loro mutuo amore è stata trasmessa la vita come dono di amore. Il loro ricordo diviene più solido e maturo man mano che si diventa adulti e si assimilano i contenuti variegati dell’esistenza umana attraverso le gioie ed i dolori, la crescita fisica, psichica, sociale e spirituale. Alle iniziali ed infantili manifestazioni di affetto legate al bisogno di vicinanza, attenzione e cura, si aggiungono quelle più consapevoli di gratitudine ed amore che, con l’andare del tempo, si solidificano in un sacro vincolo regolato dalla ragione e dalla volontà oltre che dall’istinto. Anche quando si diventa padri e madri, quando la vocazione di vita colloca in particolari identità, nonostante che la responsabilità derivante dallo specifico ruolo faccia riversare attenzioni e premure sul coniuge, sui figli, o comunque su chi è oggetto delle responsabilità o della specifica missione, rimane forte e naturale il riferimento a chi ti ha dato la vita. Chi ti è padre o madre, perché ti ha generato alla vita fisica e naturale come a quella spirituale nella grazia sacramentale, non ti perde mai di vista, sia quando è sulla terra, che quando per il mistero inesorabile della morte, ti guida e protegge dal cielo. «Chi riverisce la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera» sentenzia il libro sapienziale del Siracide (Sir 3,4-5). Proprio quando le persone care non ci sono più, il loro ricordo ed il bisogno della loro presenza, dell’ascolto della loro voce, del contatto fisico, di un abbraccio, di un bacio, si fa più pressante.

Il tempo non muta l’esigenza di quei sentimenti che ormai sono affidati alla storia mentre la vita necessariamente continua il suo corso. Non si tratta di considerazioni fantasiose o riflessioni oniriche di nostalgica affezione e rifugio narcisistico, ma semplici e vere manifestazioni di un bisogno naturale che si fa sempre più vivo e fa sentire il suo peso soprattutto in alcune particolari circostanze. Le feste familiari di compleanno ed onomastico segnano il ritmo del cammino e la qualità delle manifestazioni gioiose di condivisione e di unità. Le date che scorrono nella memoria e tornano sistematicamente nel calendario mensile ed annuale, riportano alla mente avvenimenti, sensazioni, storie, pensieri, ricordi, circostanze, volti. Un fiore, un regalo, una telefonata non sono mai cose inutili né banali, né convenzionali. Una visita al cimitero, una preghiera, l’offerta del sacrificio eucaristico sono modi e mezzi concreti che rendono visibile ed attuale il ricordo di chi non è più viandante nella vita. Sono sempre e comunque manifestazioni di interesse, di attenzione ed esprimono, nel segno, la gratitudine e la gioia della condivisione. Anche quando un padre ed una madre sono stati traditi nella fiducia, con la pretesa di godere della propria autonomia, libertà ed autodeterminazione, quando le situazioni e le scelte talora sconsiderate della vita hanno portato su strade impervie e piene di ostacoli e problemi, anche sull’orlo di scelte importanti, essi rimangono per un prodigio che va oltre la natura, i punti di riferimenti ai quali non si è capaci di rinunziare. Anche quando i genitori diventano anziani e possono costituire un peso per la gestione della casa, della famiglia, del lavoro. Prima o poi, pensandoci o no, le loro parole, i loro gesti, le loro indicazioni, ritornano alla mente ed inducono a riflettere e ad agire di conseguenza. Tutto questo diventa insegnamento per chi è più giovane. La sapienza divina con chiarezza esorta: «Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati». (Sir 3, 12-14). Gesù che aveva detto allo scriba intelligente suo interlocutore: «Fa questo e vivrai!», ripete la stessa cosa a ciascuno. Se sapremo riflettere adeguatamente e mettere in pratica quanto la stessa ragione e saggezza umana suggeriscono, anche nella preghiera le parole diventeranno efficaci, saranno esaudite e, come diceva S. Cipriano, guadagneranno la benevolenza di Dio. P. Angelo Sardone