Servi inutili

La semina del mattino

131. «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Il termine servo evoca etimologicamente la condizione e l’atto di annodarsi, connettersi a qualcuno, a qualcosa. Indica la persona dipendente, non in grado di disporre di sé e dei propri beni. Maria di Nazaret si era definita “serva del Signore” e l’apostolo Paolo si presenta «servo di Gesù Cristo». Nell’accezione cristiana il padrone è Dio e noi siamo suoi servi, a servizio della sua volontà in quanto la vita è eminentemente servizio, un servizio per amore. Nel Vangelo Gesù specifica che dopo aver fatto quanto era dovuto, noi siamo «servi inutili», ordinari, delle cui prestazioni il padrone non ha bisogno, poveri, vili per l’umiltà della condizione. “Inutile” significa che non serve a niente, non produce, inefficace, senza pretese, senza rivendicazioni, senza alcun diritto. Tutto viene da Dio, grazia, amore, misericordia. Nulla ci è dovuto e non possiamo attribuirci alcun merito dal momento che ci siamo messi a disposizione, chiamati a servire. Negli insegnamenti di Gesù, secondo la mentalità allora comune, il servo sta ad arare, a pascolare il gregge, bada alla casa, serve il padrone in tutto, ha consapevolezza della sua inutilità. Ciò non significa che non ha valore in se stesso o nel lavoro che fa. Adempiendo il proprio compito non può avanzare nessuna pretesa davanti a Dio per aver meritato la sua grazia. Tutto, infatti, è dono suo. Il servizio di amore e per amore, viene compensato dall’Amore. P. Angelo Sardone

Il fondamento è Gesù Cristo

La semina del mattino

130. «Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,11). Il fondamento della nostra fede è Gesù Cristo morto e risorto. In Lui e da Lui trova senso non solo la vita cristiana ma anche tutto ciò che ruota nella divina Liturgia, nei Sacramenti, nell’amministrazione giuridica e funzionale. La moltitudine dei credenti, popolo di Dio radunato nel nome di Gesù, si definisce Chiesa, ossia assemblea dei chiamati. Si chiama chiesa anche il luogo di culto nel quale ci si raduna per celebrare la Parola di Dio ed il memoriale della morte di Gesù. Oggi si celebra la festa della Dedicazione della Basilica Lateranense di Roma, fatta costruire dall’imperatore Costantino ed intitolata al SS.mo Salvatore, con un battistero esterno dedicato a S. Giovanni Battista, donde il nome di S. Giovanni in Laterano ed un palazzo sede dei vescovi di Roma. Essa non è solo la Cattedrale di Roma, ma anche “capo e madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’orbe”. Distrutta e ricostruita varie volte, fu anche sede della celebrazione di cinque concili. La Chiesa è «il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Essa è l’edificio di Dio, costruito su Gesù Cristo, pietra rigettata dai costruttori, casa di Dio, tempio santo. Di essa fanno parte tutti i battezzati. Nessuno mai potrà sostituirne il fondamento, ma come pietra viva, ciascuno potrà sempre più cementarsi su di esso, con la garanzia che «Ubi Christus ibi Ecclesia. Dove c’è Cristo lì ce la Chiesa!». P. Angelo Sardone

Presenza d’amore sino alla fine

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129. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1)

I Vangeli Sinottici (Matteo, Marco e Luca) riportano sia la moltiplicazione dei pani che l’istituzione dell’Eucaristia. S. Giovanni, invece, alla vigilia della passione e morte di Gesù, colloca la lavanda dei piedi agli Apostoli. È una sorta di trasposizione dell’istituzione dell’Eucaristia, il segno evidente che Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio perché nessuno si perda. La lavanda è preceduta da una espressione singolare: «Gesù amò i suoi discepoli sino alla fine». Sulla croce Egli ha dato la sua vita per il mondo intero: nell’Eucaristia offre la salvezza per la vita del mondo, per chi crede e per chi ancora non crede. Essa rende presente sacramentalmente questo dono nel corso della storia. Sino alla fine significa fino al compimento storico e temporale della sua vocazione di Figlio di Dio e Salvatore; fino alla manifestazione più significativa e più grande del suo amore, rimanendo perennemente in un minuscolo frammento di pane a ricordare la presenza reale, dove Egli tutto intero si fa sostanzialmente presente nella realtà del suo corpo e del suo sangue (S. Paolo VI). Nell’Eucaristia è manifestata la forma più alta del suo amore, rovesciando i criteri del dominio ed affermando in modo radicale il criterio del servizio: «Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti ed il servo di tutti» (Mc 9,35). Che grande dignità e gioia poter affermare con S. Paolo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me!». (Gal 2,20). P. Angelo Sardone

La furbizia dell’amministratore

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128. «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti» (Lc 16,10). È molto eloquente la conclusione della parabola di Gesù sull’amministratore ingiusto e disonesto che gestisce gli affari del padrone e si rivela autentico sperperatore. Scoperto e minacciato, corre ai ripari perpetrando con frode ulteriori interventi illeciti per accattivarsi l’amicizia ed il favore dei debitori. Singolare è l’atteggiamento del padrone che invece di disapprovare, loda la pur biasimevole ed immorale soluzione, per l’astuta capacità di procacciarsi amici con un’ingiusta ricchezza. Gesù, dopo aver invitato i discepoli ad essere furbi «investendo» le proprie ricchezze nei poveri, e saper trarre anche dal male fatto qualcosa di bene, elogia la fedeltà nelle piccole cose, nella normalità del giorno e nell’ordinarietà della vita. Sono esaltati i valori della retta intenzione, del desiderio di piacere a Dio, di fare ogni cosa con amore e per amore. La fedeltà oltre essere una virtù, è un impegno vincolante basato sulla fiducia. Essa è perseveranza nell’amore e caratteristica dell’amore stesso. Si sviluppa sia nei confronti di Dio che degli uomini con lealtà e coerenza nel mantenere gli impegni presi, tenere saldi i legami, ed è sostenuta dalla forza dell’amore. La fedeltà nel piccolo si riverbera nelle cose grandi. Spesso ci ritroviamo amministratori infedeli, sperperando i doni ed i talenti di Dio, dai più semplici ai complessi, tradendo la fedeltà e l’impegno richiesti nella loro ordinaria amministrazione. La Parola di Gesù rimane pertanto un impegnativo monito per la sistematicità ordinaria di vivere ed agire correttamente. P. Angelo Sardone 

I nemici della croce di Cristo

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127. «Molti, con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,18). Nella sua opera evangelizzatrice, con la predicazione e gli esempi di azione e comportamenti, S. Paolo invitava i primi cristiani ad imitarlo ed a guardare coloro che vivevano la loro vita cristiana secondo gli insegnamenti da lui ricevuti. La sua attenzione diventava spesso preoccupazione per la sorte di tanti che, dopo aver risposto con entusiasmo all’invito evangelico si attardavano dietro le situazioni umane, perdendo il senso ed il valore delle cose spirituali, se non addirittura schierandosi contro. Ciò determinava in lui uno sconforto tale da portarlo alla sofferenza fisica fino alle lagrime. Si trattava di accogliere nella vita il mistero della morte di Cristo e della sua risurrezione, primo principio della vera fede, tradotto nei comportamenti giornalieri improntati alla carità ed alla verità. Dinanzi alle ostinatezze il suo intervento fermo e deciso si trasformava in esortazione calda. piena di mestizia, ma anche ferma, evidenziando col peso significativo delle espressioni verbali, l’identità di questi cristiani come “nemici della croce di Cristo” e dichiarando apertamente la triste sorte loro riservata, la perdizione. Alla voracità del ventre come valore primario di auto soddisfazione da ogni punto di vista, alimentare e morale e alla sfacciataggine di un vanto del tutto inappropriato di pensieri, comportamenti ed azioni di cui bisogna invece vergognarsi, deve opporsi l’opzione fondamentale per Cristo, rimanendo saldi nella dottrina e nei principi evangelici liberamente accolti. In tanti modi anche oggi, purtroppo, si può esser è di fatto, nemici della croce di Cristo. P. Angelo Sardone

La pecora ritrovata

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126. «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6). Spesso, soprattutto da bambino, osservavo con attenzione ed ammirazione mio padre che conduceva il gregge al pascolo: ero affascinato dalla sua arte di guidarlo, sorvegliarlo, mungere una per una le pecore, aiutare le partorienti, accudire gli agnelli. Il suo non era un lavoro, ma una liturgia, un rapporto d’amore con quelle creature che gli permettevano di muoversi sulla terra murgiana con riverenza, sacro rispetto, consapevole che da essa nasceva il nutrimento fresco al palato delle bestie, essenziale per farle vivere e prosperare. Talora succedeva che qualche pecora attratta da erba più verde si attardava e staccava dal gregge, o qualcuna prendeva un viottolo diverso, causando nel suo cuore un dispiacere ed una preoccupazione, soprattutto quando, al calare del sole alla conta nel recinto mancava al numero. Allora lasciava tutto al sicuro, sbarrava l’ovile: si poteva attendere per la mungitura perché era necessario ritrovare la pecora perduta. Non finiva di calare il sole quando lo vedevo ritornare: lo sguardo era dolce, la gioia gli invadeva il cuore, gli occhi erano fiammeggianti di luce. Quando sono diventato sacerdote ed ho cominciato a praticare l’arte pastorale del gregge del popolo di Dio, quelle immagini mi sono apparse fortemente didascaliche. Ed allora ho capito ancora di più la gioia raccontata da Gesù con la metafora della pecora ritrovata e ricondotta lietamente all’ovile. L’ho provata anche io e continuo a provarla ogni volta che un fratello o una sorella, attraverso il mio ministero sacerdotale, torna a Dio con la riconciliazione. P. Angelo Sardone

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Per non correre invano

La semina del mattino

125. «Io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato» (Fil 2,13). Lo zelo apostolico è una spinta missionaria che richiede costantemente movimento e fatica. A Dio che opera il volere e l’operare secondo il suo disegno, corrisponde l’impegno di ciascuno nel dedicarsi alla propria salvezza senza esitazione, per realizzarla con la Sua grazia e risplendere come astri nel mondo. Solo così al termine della vita il cristiano potrà vantarsi di non aver corso invano, né di avere invano faticato. La confessione paolina si tradusse in pratica di vita e di santificazione in S. Carlo Borromeo (1538-1584), una delle figure più eminenti del 1500, ispiratore ed organizzatore del Concilio di Trento (1545-1563). Creato cardinale ad appena 22 anni e vescovo di Milano, nella sua vastissima diocesi mise in atto l’opera riformatrice del Concilio con il grande spessore della sua personalità di pastore zelante, instancabile nei viaggi ed itinerante in tutte le porzioni della Chiesa locale, preoccupato per la formazione del clero ed il progresso spirituale dei fedeli. Durante la terribile peste del 1576 organizzò personalmente l’opera di assistenza, visitando i colpiti dalla malattia. La spossatezza delle fatiche apostoliche minò profondamente la sua salute causandogli la morte a soli 46 anni, il 3 novembre 1584. Si corre invano quando si va dietro alle chiacchiere; si fatica invano quando si perseguono ideali egoistici. Il cammino di salvezza è itinerario di impegno, fatica e sudore: tutto viene ricompensato quando si raggiunge la meta e voltandosi indietro, si vede che tutto portava a quel traguardo. P. Angelo Sardone

Svuotarsi e spogliarsi

La semina del mattino

124. «Svuotò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7). L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi, molto probabilmente, al dire degli studiosi, era già cantato nelle primitive comunità. È un capolavoro di teologia e letteratura biblica, un excursus contemplativo della vita di Cristo, della sua vicenda umana ancor prima della nascita, fino alla sua vita terrena ed alla sua ascensione al cielo. L’esortazione iniziale alla Comunità riguarda il comportamento concreto e il modello che i cristiani devono seguire, il Signore Gesù. Per avere gli stessi suoi sentimenti, viene presentato un quadro riassuntivo dell’itinerario divino-umano perché sia esempio per il cammino del credente. Ogni uomo che si vuole realizzare deve inoltrarsi in questo percorso. Paolo lo traccia con concetti analoghi a quelli di Plotino, un filosofo del III sec. a.C. seguace di Platone, in particolare in riferimento alla cosiddetta anastrofé (emanazione, processione dall’uno, abbassamento), ed all’epistrofè (conversione, innalzamento). Dio è amore e la sua prima caratteristica è lo svuotamento: «spogliò se stesso». Spogliarsi si riferisce all’esterno, svuotarsi, l’interno; l’amore cede tutto lo spazio all’altro, accoglie l’altro, non occupa posto, diviene pura accoglienza. La prima manifestazione dell’amore è il vuoto: Cristo si annienta assumendo la condizione di servo. Un esempio concreto di questo percorso è S. Martino de Porres (1579-1639), che oggi la Liturgia ricorda. Con la sua vita da converso domenicano, la via del crocifisso da lui percorsa come inserviente, spazzino, barbiere, conferma la validità della scelta fondamentale dello svuotamento di sé per riempirsi di Cristo ed essere da Lui esaltato. P. Angelo Sardone

Il ricordo dei defunti

La semina del mattino

123. «Beati coloro che muoiono nel Signore» (Apc 14,13). La partecipazione alla celebrazione eucaristica, la visita al cimitero e la sosta dinanzi alle tombe, caratterizzano la memoria annuale del 2 novembre. Il mistero della morte avvolge di fosca luce l’odierna giornata col particolare e sentito ricordo di tutti i defunti. La Chiesa pellegrinante sulla terra vive la comunione nel corpo mistico di Cristo, con coloro che hanno concluso il loro cammino di vita. Da sempre è stata coltivata con grande pietà la memoria dei defunti, poiché «santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati» (2Mac 12,45). È data tanta importanza all’offerta della preghiera di suffragio ed alla celebrazione eucaristica in loro memoria. La creatura umana se da una parte è avvolta nel buio del mistero della conclusione della vita, dall’altra è confortata dalla luce sfolgorante che brilla nella risurrezione dei morti inaugurata da Cristo crocifisso, morto e risorto. Solo la Parola di Dio, con la certezza fondata sulla morte di Cristo e risolta nella sua Risurrezione, riesce ad illuminare e a dare risposte all’esperienza drammatica della morte: i morti sono nelle mani di Dio, non vi è più tormento o sofferenza per loro. Il giudizio finale, a partire dalle beatitudini evangeliche, si baserà sull’amore vissuto nella vita sulla terra nei confronti dei fratelli sfamati e dissetati, accolti e rivestiti, visitati e confortati. Dio che eliminerà la morte per sempre, asciuga ogni lagrima dai nostri occhi. La preghiera sostiene i nostri defunti, li aiuta e rende efficace la loro intercessione in nostro favore. P. Angelo Sardone

La vita è stata trasformata

Venerdì 30 ottobre alle ore 10.00 il Signore della vita ha chiamato a sé il mio papà Giuseppe (Peppino) come tutti amabilmente lo chiamavamo. Aveva 95 anni compiti lo scorso 21 aprile. Ha concluso la sua vita serenamente come aveva vissuto, dedito al lavoro, integerrimo nei suoi compiti e ruoli di famiglia e di lavoro, delicato e compreso nella sua vita spirituale e sacramentale. La mia grande gioia è stata quella di aver condiviso con lui l’ultima notte per la sua assistenza: non si è lamentato mai ed ha partecipato con noi tutti nell’amministrazione dell’Unzione degli infermi e del cibo eucaristico. L’abbiamo vegliato con un concorso impressionante di parenti, amici, conoscenti nella sala del Commiato “Don Tonino Bello” ad Altamura e in cattedrale ho presieduto la celebrazione esequiale attorniamo dal Superiore Provinciale P. Sandro Perrone, dai confratelli della casa di Matera, Bari ed Oria e dai carissimi sacerdoti del clero diocesano. Ora egli è nella pace, concittadino dei Santi e familiare di Dio. Grazie a tutti coloro che vorranno ricordarlo nella e con la preghiera. P. Angelo Sardone