Assunzione di Maria (sintesi liturgica)

L’arca del Signore viene solennemente intronizzata a Gerusalemme nella tenda e per essa sono offerti olocausti e sacrifici. La benedizione nel nome del Signore conclude il grande momento liturgico preparato e voluto da Davide. Il segno richiama la vera arca della nuova alleanza, Maria, la donna vestita di sole, col capo coronato di dodici stelle ed il grembo pronto al parto: ha avuto la vittoria sul peccato e sull’enorme drago rosso per via di una singolare grazia e del Figlio da lei generato ed è stata assunta in cielo in corpo ed anima. Benedetta fra tutte le donne, Maria condensa nel Magnificat la lode perenne che si deve al Creatore per la sua potenza ed il soccorso offerto all’umanità ed esplicitato nell’umiltà di lei sua serva. La beatitudine proclamata su di lei da tutte le generazioni, mediante le parole di Gesù rimbalza su chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. La vittoria operata da Cristo con la sua risurrezione pone fino al dominio della morte e nel mistero dell’assunzione di Maria prospetta la finalizzazione ultima nella beatitudine eterna del cielo. P. Angelo Sardone  

La triste fine di Geremia scongiurata da uno straniero

«Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia» (Ger 38,10). La vicenda umana di Geremia sta per concludersi tragicamente. La sentenza di morte è stata emessa dai capi che in un certo senso hanno poteri superiori a quelli del re Sedecia. Il profeta è giudicato come colui che scoraggia il popolo e cerca il suo male. Non vi era assurdità più grande! L’incomprensione era determinata dalla sfiducia in Dio e dalla ricerca del proprio interesse. Così il povero profeta finisce dentro una cisterna nell’atrio della prigione, colma di fango, ottima per farlo affondare e morire di fame. Solamente uno straniero, Ebed-Melech, un eunuco etiope, ha compassione della situazione del profeta giudicando male quello che gli è stato fatto. Il re accoglie il sollecito dell’eunuco e lo fa riportare in superficie. La morte sarà rimandata a più tardi, in Egitto. L’incomprensione che spesso avvolge la predicazione seria dei messi del Signore, procura gravi danni coinvolgendo a volte persone buone ma senza fondamenta umane e spirituali, spesso in balia della simpatia o dell’ignoranza. Chi ne va di mezzo sono i profeti veri, le cui parole puntualmente si avverano perchè non provengono dal loro modo di vedere ma dal filo intimo di relazione con Dio. Molte volte sono gli stessi beneficiati che si rivoltano stupidamente contro il beneficiario. Accade anche a Gesù la stessa cosa. Questi comportamenti si avverano quando l’annuncio del Vangelo non è accolto per quello che è, ma guardando ed operando in forza di una simpatia che è il corredo di predicatori talora superficiali ed opportunisti e da “devoti” altrettanto leggeri ed allergici ad un cambiamento vero di vita. P. Angelo Sardone

La giustizia di Dio

«Io giudicherò ognuno di voi secondo la sua condotta. Convertitevi e desistete da tutte le vostre iniquità, che non saranno più causa della vostra rovina» (Ez 18,30). Spesso con la Parola proclamata dai profeti, Jahwé richiama in maniera forte e chiara la responsabilità personale di ciascuno che si incastona in quella collettiva più ampia. La condotta morale e comportamentale di ciascuno rende responsabile davanti a Dio. I comandamenti del Signore diventano lo specchio nel quale rimirare il proprio operato sia nei confronti di Dio che dei propri simili. Il giusto che osserva il diritto e la giustizia, non affidandosi agli idoli, non disonorando la moglie del prossimo, non opprimendo alcuno, dividendo il pane con l’affamato, pronunciando retto giudizio fra un uomo e un altro, vivrà. Dio non vuole la morte del peccatore, ma la sua conversione: essa deve necessariamente qualificarsi con un cuore nuovo ed uno spirito nuovo, la rinunzia al tornaconto personale ed egoistico, l’abbandono della stupida ostinazione a non voler cambiare. Il recupero dell’amore di Dio avviene attraverso l’osservanza della legge di Dio, a cominciare dai precetti naturali, oggi così apertamente biasimati e violentemente bersagliati in nome di un ossessivo ed imposto progressismo ideologico. La stessa natura umana e fisica, atmosferica ed ambientale si ribella e fa scontare all’uomo scellerato la pena dovuta alle sue colpe reiterate. Il rifiuto di Dio diviene anche il rifiuto di se stessi. Dio ce ne guardi e liberi, finché siamo in tempo. La pandemia attuale non è solo quella del covid 19. Se si vuole, ci si può convertire e desistere dal male. Dio ci aiuta. P. Angelo Sardone

La più bella storia d’amore

«Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te e divenisti mia» (Ez 16,8). Una delle pagine simboliche più belle in assoluto che raccontano l’intensa storia di amore tra Dio ed il suo popolo con toni e termini antropomorfici molto significativi, è il capitolo 16 di Ezechiele. Il profeta, situandosi nella corrente analoga avviata da Osea, sviluppa in una lunga allegoria che tocca altri capitoli, la storia di Israele, come una storia di continua infedeltà. Il popolo è simboleggiato da una bellissima donna, a partire dalla sua nascita in Canaan, privata delle frizioni dopo il parto, abbandonata al suo destino e cresciuta come un arbusto selvatico. L’occhio di Dio la scorge nell’età dell’amore, stende addosso il mantello in segno di possesso e la fa sua. L’alleanza al Sinai è come il momento più alto dell’alleanza, col matrimonio. Nonostante ciò, infatuata della sua bellezza, ella si prostituisce facilmente con chiunque, attuando anche atrocità, come una “spudorata sgualdrina” (16,30). Il Signore l’abbandona a se stessa perché si prenda le sue responsabilità e le conseguenze determinate da questa incessante infedeltà che la porterà alla distruzione, attuata con la città e col tempio di Gerusalemme. Mai furono scritte cose così belle ed espressive che manifestano l’amore e le sue ragioni che spingono Dio ad amare il suo popolo, le sue creature, superando tutte le difficoltà dovute al suo stesso rifiuto. La storia si ripete oggi nella vita di chi, pur sentendosi amato e amata da Dio, per una inconsistenza spirituale dovuta alla sua superficialità o vanagloria, si lascia andare coi vari amanti che in ogni settore dell’esistenza, promettono beni che appagano al momento ma non hanno consistenza. P. Angelo Sardone

Chiara, pianticella del Signore

«Io, Chiara sono, benché indegna, la serva di Cristo e delle Sorelle Povere e pianticella del padre santo» (Dal testamento di S. Chiara). Il fascino misterioso di Gesù aveva condotto Chiara, figlia di una nobile famiglia di Assisi, quando aveva 19 anni, a seguire le orme di Francesco nella via stretta della perfezione evangelica. Come lui aveva ritenuto “signora nostra, la santissima povertà”, e si era legata con un vincolo indissolubile, quasi un privilegio, lasciato poi in eredità alle sue figlie che da lei prendono il nome di “Clarisse”. Fuggita da casa, si fa tagliare i capelli dai frati; deponendo per sempre gli ornamenti umani, diviene reclusa in un piccolo fabbricato accanto alla chiesa di San Damiano, restaurata da Francesco, dove è subito seguita da due sue sorelle di carne, da una cinquantina di donne e ragazze e, qualche anno dopo, anche da Ortolana, la  sua mamma. La povertà appresa da Francesco, “uomo nuovo”, padre suo nella sequela di Cristo, la fa immergere con le Povere Dame nella preghiera, vivendo dei proventi del lavoro e di qualche aiuto. Si professa serva delle sue suore cui lava i piedi, e dà esempi di grande umiltà sino alla fine. Cenere e cilicio sono strumenti e profumo della sua santità, unitamente ad un grande amore per l’Eucaristia che è arma efficace per respingere i Saraceni dall’assalto al monastero. Il suo fascino ancora oggi è fortemente vivo per tante ragazze e donne che attratte dal suo esempio seguono la vocazione claustrale, vivendo in povertà, letizia e semplicità di cuore. Auguri a tutte coloro che portano questo bel nome, perché, sull’esempio della “pianticella di Assisi”, crescano in virtù e producano frutti di santità di vita per splendere di luce vera ed infrangere il buio della falsa ricchezza. P. Angelo Sardone

San Lorenzo: i poveri, la graticola, le stelle

«Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). La seconda lettera di S. Paolo ai Corinti ha anche come obiettivo la realizzazione di una colletta per i poveri di Gerusalemme. Questa preoccupazione è stata ed è sempre viva nel cuore della Chiesa sulla base anche di quanto Gesù aveva affermato: «i poveri li avrete sempre con voi» (Mc 14,7). Dei poveri si era interessato nel suo ministero S. Lorenzo, diacono di Roma, del quale oggi celebriamo la memoria, messo a morte nel 258 dall’imperatore Valeriano. La sua importanza nella storia della Chiesa di Roma è analoga a quella di Stefano a Gerusalemme. Nato in Spagna,  nella città dell’Impero era diventato arcidiacono, il primo dei sette diaconi, e per ordine di papa Sisto II amministrava le attività caritative nell’intera diocesi, i beni e le offerte di quella Chiesa, provvedendo ai bisogni dei poveri, degli orfani, delle vedove e dei malati, che considerava i “veri tesori della Chiesa”. L’editto dell’imperatore che voleva accaparrarsi delle ricchezze della Chiesa, non lo risparmiò e morì arso sopra una graticola, come testimoniano S. Ambrogio e S. Leone Magno, bruciando fuori molto meno di quanto la carità di Cristo gli bruciasse dentro. Sulla sua tomba l’imperatore Costantino fece erigere la basilica omonima. Con larghezza egli raccolse quanto con altrettanta larghezza aveva seminato nell’espressione genuina della carità di Cristo che non è costituita da parole ma da fatti e verità. Le stelle cadenti nella notte di S. Lorenzo secondo una antica tradizione, simboleggiano le lacrime del Santo nel supplizio o i carboni ardenti sotto la graticola del suo martirio. Auguri a coloro che portano il nome di Lorenzo perché raccolgano con abbondanza da quanto largamente hanno seminato. P. Angelo Sardone

Edith Stein: filosofa, carmelitana e santa

«Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza» (Os 2,17). La parabola profetica di Osea è contrassegnata fortemente dall’immagine biblica della nuzialità. Essa manifesta il rapporto di amore di Dio col suo popolo e si esprime nel segno del matrimonio dello stesso profeta. Israele viene presentato come una sposa che alterna i momenti di entusiasmo alle infedeltà. Dio lo richiama costantemente alla bellezza ed all’intensità del primo amore, quello della giovinezza, quando è più facile rispondere. In questa vicenda simbolica si innesta la memoria liturgica odierna di S. Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein, 1891-1942) vergine e martire carmelitana, compatrona dell’Europa. Ebrea di ceppo tedesco, abbandona la fede e si rifugia nell’agnosticismo. Diviene filosofa seguendo la corrente fenomenologica di Edmund Husserl. Convertita al cristianesimo riceve il Battesimo, e realizza il suo ardente desiderio di divenire Carmelitana a Colonia in Germania. Qui cambia nome e vita. La lettura della vita di S. Teresa effettuata nel corso di una notte intera, la stravolge e la fa concentrare sul mistero della croce. In una delle deportazioni in massa ad opera della Gestapo, insieme con sua sorella Rosa viene prelevata e condotta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove il 9 agosto viene martirizzata nella camera a gas, quando ha appena cinquantuno anni di età. Il primo amore delle fede ebraica si concretizza, evolve e realizza pienamente nella fede cristiana impastata di sofferenza e della croce assunta simbolicamente anche nel nome all’atto della consacrazione. P. Angelo Sardone

S. Domenico parlava con Dio e parlava di Dio

«Fu sopra di lui la mano del Signore» (Ez 1,2). Anche il profeta Ezechiele in maniera concisa racconta la storia della sua vocazione, con una esemplificazione simbolica frutto di un incontro mistico e di una articolata visione di Dio. La percezione della gloria e la conseguente prostrazione con la faccia a terra dinanzi alla maestà divina, si concludono evidenziando la forza della mano di Dio che sovrasta la vita e l’opera del profeta. L’immagine e la sequenza biblica si collegano perfettamente allo spagnolo S. Domenico di Guzman (1170–1221), una sorta di patriarca della santità. L’ardente predicazione del vangelo e la difesa della fede cristiana lo tenne impegnato tutta la vita in una profonda conoscenza del mistero di Dio, con lo studio e le attività pastorali di annunzio. La fondazione dell’Ordine dei Frati Predicatori (1215) che da lui prende il nome di Domenicani, segnò uno dei punti di maggiore ricchezza per la Chiesa di tutti i tempi. L’intento spaziava dalla contemplazione di Gesù alla trasmissione del suo messaggio di salvezza contenuto nel Vangelo da lui incarnato. Socievolezza ed affabilità, assiduità nella veglia e nella preghiera, sobrietà, sono gli elementi   che lo contraddistinguono e spiegano come “Domenico parlava di Dio” nella predicazione e nell’insegnamento, perché “parlava con Dio nella preghiera”. I centri universitari di Europa ebbero i suoi figli appassionati di verità, profondi studiosi della teologia, devoti della Madonna e del Rosario, depositari di una santità che unisce la cultura e la mistica, il sapere ed il dovere cristiano. Auguri a tutti coloro che portano il nome di Domenico, Domenica, Mimmo o Mimma e derivati, perché esprimano nella vita ciò che esso significa: «sono del Signore».  P. Angelo Sardone

La Trasfigurazione di Gesù

«Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo. Gli furono dati potere, gloria e regno; il suo potere è un potere eterno» (Dn 7,13-14). Il mistero della Trasfigurazione di Gesù è un avvenimento storico già previsto dal profeta Daniele nelle sue visioni notturne. Gli elementi che fanno da contorno all’avvenimento, puntualmente annotati dai vangeli sinottici e che si riferiscono a Gesù in una sorta di anticipo della sua gloria finale, sono già presenti nella profezia: uno simile a un Figlio d’uomo con la veste bianca come la neve e i capelli candidi come la lana. A Lui sono stati dati un potere eterno, la gloria ed il regno indistruttibile. Lo straordinario evento coinvolge gli occhi estasiati e le bocche ammutolite per tanta grandezza dei tre fidati apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono essi i testimoni oculari ed i vettori evangelizzanti di ciò che sarebbe stato di Gesù dopo la sua risurrezione. Lo splendore eccelso della gloria, contornato dalla presenza di Mosè ed Elia, la Legge ed i Profeti, dura poco ma si stampa nei cuori degli apostoli inebetiti di luce e fa nascere in loro l’ardita risoluzione di voler rimanere sempre lì incuranti di tutto e beatificati dalla visione. Qualunque esperienza sfolgorante di luce e di gloria sulla terra è destinata a durare poco ed esaurirsi: il luogo più opportuno non più per un’esperienza passeggera ma per la vita senza fine, è l’eternità, quando si vivrà immersi nella luce per diventare luce insieme con la Trinità. A maggior ragione quando si tratta di esperienze spirituali anche forti che, se non sono corredate da profondità, serietà e perseveranza, possono risultare evanescenti emozioni senza durata e senza frutto. P. Angelo Sardone

La Madonna della Neve

«Il Signore restaura il vanto di Giacobbe, rinnova il vanto d’Israele» (Na 2,1). Il minuscolo libretto di Naum, tre capitoli appena, ha come autore uno dei più grandi poeti d’Israele, difficilmente identificabile in un profeta. Egli non denuncia i peccati del popolo né lo minaccia, come invece fanno gli altri profeti. Lo scritto ruota attorno alla distruzione della città di Ninive ad opera dei Babilonesi e dei Medi intorno al 612 a.C. Giacobbe ed Israele sono sotto l’impulso restauratore di Dio che, sempre, compie meraviglie e sorprende con eventi straordinari ed eccezionali. Oggi si celebra la memoria liturgica devozionale di Sancta Maria ad Nives, la Madonna della Neve. Il titolo è legato all’evento straordinario e leggendario della caduta della neve in piena estate a Roma, a seguito della quale fu edificata sul colle Esquilino la basilica di S. Maria Maggiore, dopo il Concilio di Efeso (431) nel quale Maria era stata proclamata Madre di Dio, Theotokos. Il patrizio romano Giovanni e sua moglie, coniugi senza figli, vollero offrire i loro beni alla Vergine santa, per la costruzione di una chiesa a lei dedicata. La Madonna apparve loro in sogno la notte fra il 4 e il 5 agosto, indicando con una nevicata estemporanea in piena estate il luogo dove doveva sorgere l’edificio. La liturgia, più che la neve, celebra la dedicazione di S. Maria Maggiore. La bianca neve è simbolo di purezza, di rinascita e di trasformazione. Ogni 5 agosto il miracolo viene ricordato nella basilica romana con una pioggia di bianchi petali di rosa che cadono all’interno della cupola. P. Angelo Sardone