La Madonna della Salette

«Queste sono le due cose che tanto appesantiscono il braccio di mio Figlio» (Maria SS.ma a La Salette). Erano circa le 14 pomeridiane di sabato 19 settembre 1846 quando sul monte de La Salette, nel dipartimento dell’Isère, in Francia, la Madonna apparve a due pastorelli, Melania Calvat e Massimino Giraud, rispettivamente di 15 e 11 anni. Mentre le vacche erano al pascolo furono attratti da una luce splendente che faceva da alone ad una donna seduta sopra i sassi col volto tra le mani e le lagrime che le scendevano abbondanti dagli occhi. Si avvicinarono e, vinta la paura alle dolci parole della donna vestita di luce, si resero conto che si trattava di qualcosa fuori del normale. La “bella Signora” indossava gli abiti di una contadina ed aveva sul petto una tenaglia, un martello, un crocifisso e le rose ai piedi. Parlò loro nel dialetto di Corps loro paese natale. La «grande notizia» conteneva constatazioni ed avvertimenti, a partire dalla sua sofferenza per l’umanità, al braccio pesante del Figlio divenuto ormai insostenibile, ai raccolti guasti dei campi, alla carestia, alla pena della Madre verso i suoi figli. Il peso del braccio del Figlio era determinato dal mancato riposo festivo della domenica e dalla bestemmia continua contro il nome di Gesù. A rimedio di ciò Ella indicava la preghiera e la conversione. A ciascuno dei veggenti la Vergine, Riconciliatrice dei peccatori, rivelava poi un segreto, ingiungendo particolarmente a Melania di comunicarlo solo dodici anni dopo. Mentre si muoveva per il commiato, per ben due volte ripetè: «Ebbene, figli miei, voi lo farete conoscere a tutto il mio popolo». Questo è il cuore del messaggio della Salette. Nel 1851 con alcuni sacerdoti diocesani nacque la Congregazione dei Salettini. Massimino morì il 1875; il suo cuore riposa nella basilica de La Salette. Melania concluse la sua vita travagliata il 15 dicembre 1904, ad Altamura (Bari), dove è sepolta nella chiesa delle Figlie del Divino Zelo la cui Casa religiosa S. Annibale M. Di Francia volle intitolare alla Madonna della Salette. P. Angelo Sardone

Amos e la questione sociale

«Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere» (Am 8,7). Sono molto interessanti la storia e le profezie di Amos, il pecoraio di Tekoa, direttamente preso dal Signore da dietro il suo gregge ed inviato a profetare al santuario scismatico di Bethel. Egli condannava la vita corrotta delle città e le ingiustizie sociali, la falsa sicurezza posta nei riti celebrati ed un po’ meno nell’impegno morale. La terza parte del suo minuscolo libro (appena 9 capitoli), comprende alcune visioni e l’annunzio della fine, detto generalmente il giorno del Signore. Alcune invettive decise e ferme sono rivolte a coloro che calpestano il povero e sterminano gli umili, contro gli speculatori e gli approfittatori, ai danni di coloro che non possiedono nulla e si lasciano comprare per un paio di sandali. La determinazione del Signore è precisa: non dimentica le opere dei malvagi, soprattutto quelle contro ogni forma di povertà ed il castigo è individuato nel terremoto che fa sobbalzare la terra come le acque del Nilo mettendo in lutto gli abitanti. L’intera catastrofica situazione cederà però il passo a prospettive di restaurazione e di fecondità simile a quella del Paradiso. Il Signore guarda dal cielo e si affaccia dalla sua finestra per osservare la terra ed i suoi abitanti, scorgendo tanto bene, accanto però anche a tanto male. Egli vede, osserva e quando interviene duramente lo fa per la correzione. Tutto è davanti ai suoi occhi, sempre. Non dimentica il bene per potenziarlo, non dimentica il male per correggerlo in maniera adeguata. P. Angelo Sardone

Sintesi liturgica della XXV domenica del Tempo Ordinario

Sintesi liturgica. XXVª Domenica del Tempo Ordinario. A coloro che calpestano il povero, sterminano gli umili del paese ed attendono il momento giusto per smerciare in maniera fraudolenta il frumento, il Signore assicura che non dimentica mai le loro opere. L’amministratore scaltro, ma disonesto, sa trovare sempre il modo come venire fuori dalle situazioni più gravi della sua gestione: condonare proporzionalmente all’olio ed al grano, il debito dovuto al suo padrone da alcuni suoi servi. Questo comportamento viene lodato dal Signore non per la disonestà, ma per la scaltrezza, onde esortare a guadagnare il Regno ed avere la certezza di non rimanere per strada. La fedeltà o la disonestà nel poco si riverbera nel molto. La garanzia di una vita calma e tranquilla, apportatrice di salvezza e conoscenza della verità, è assicurata dalla preghiera nei suoi molteplici aspetti: domanda, supplica, ringraziamento, con mani pure, senza collera e contese, mediata da Gesù Cristo. P. Angelo Sardone

La storia del seme che muore e dà vita

«Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore» (1Cor 15,36). La legge della natura, evocata dallo stesso Gesù Cristo, prevede che il seme gettato nel terreno non prende vita se non dopo la sua morte ed il suo disfacimento. E’ questo l’appiglio al quale si rifà S. Paolo presentando la spinosa questione della risurrezione dai morti ad una società ostica come quella greca che era assolutamente riluttante a qualsiasi riferimento alla risurrezione dei corpi. L’aveva sperimentato con grande delusione proprio ad Atene. La chiarezza espositiva dell’Apostolo è sorprendente: il corpo seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; quello seminato nella miseria, risorge nella gloria; il corpo seminato nella debolezza, risorge nella potenza; seminato come corpo animale, risorge corpo spirituale. Questo intervento è sollecitato da una diffusa forma di antropologia nella mentalità greca che attribuiva al corpo una funzione negativa nella espressione della persona e di conseguenza offuscava la spiritualità e la stessa immortalità. Paolo dà dimostrazione chiara di preparazione ricorrendo ad analogie tratte dal mondo della natura. Il cardine di tutto rimane l’onnipotenza creatrice di Dio le cui risorse sono inesauribili. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso principio: per vivere bisogna morire. Quante idee, testimonianze, azioni, per essere efficaci o essere ritenute tali devono passare attraverso il processo dell’umiliazione e della morte prima di assurgere a valori incontrastati e credibili. Purtroppo facilmente ci si scoraggia o a tutti i costi si tenta di far valere le proprie posizioni. Nell’uno e nell’altro caso, occorre essere prudenti e saggi sapendo attendere, e pazientare, come fa il contadino. P. Angelo Sardone

I santi Cornelio e Cipriano per l’unità della Chiesa

«Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). La certezza delle fede cristiana è data dal fatto che Gesù Cristo, dopo tre giorni dalla morte è risorto. Se non fosse così la predicazione sarebbe vuota e vana è la fede. La risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra risurrezione. Quelli che muoiono in Cristo e per Cristo non sono perduti. In questo senso si muove la memoria liturgica di oggi che vede accomunati nel martirio ed in idealità condivise, due grandi Santi del III secolo, i cui nomi sono riportati nel Canone Romano: papa Cornelio (210-253), pastore di animo grande e Cipriano (210-258) vescovo di Cartagine. Cornelio fece fronte ad uno dei primi scismi provocato dal prete Novaziano, che diede vita ad una comunità dissidente, e difese l’unità della Chiesa, confortato dalla solidarietà e dal vigoroso sostegno di Cipriano uno dei massimi esponenti del cristianesimo latino. Egli aveva dato un notevole contributo alla dottrina sull’unità della Chiesa raccolta intorno all’Eucaristia sotto la guida dei vescovi e di questi in comunione con la sede principale di Roma, fondata su Pietro il capo degli Apostoli. La storia dei primi secoli del Cristianesimo ha consolidato dal punto di vista organizzativo, teologico e giuridico tanti presupposti che Santi eminenti come loro hanno affermato e difeso. Una conoscenza più adeguata ed uno studio più approfondito permette di scoprire la grandezza di questi passi, il coraggio, la santità e l’eroismo di questi grandi uomini, cui si deve tanta gratitudine ed ammirazione. Auguri a tutti coloro che portano i loro nomi, forse non molto comuni nella odierna società e nella moderna mentalità. P. Angelo Sardone

La Madre Addolorata

«Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius». L’inizio della celebre sequenza attribuita al frate francescano Jacopone da Todi, scritta fra 1303 e il 1306, è una tra le più belle rievocazioni dell’odierna memoria liturgica di importante rilevanza dottrinale e pastorale, la Beata Vergine Maria Addolorata. Maria di Nazaret, la donna del dolore, accanto al suo figlio Gesù fu partecipe della sua passione. I dolori già sentenziati dal santo vecchio Simeone nel segno della spada che le avrebbe trafitto l’anima (Lc 22,35) e che in un certo senso «scavava nella sua vita i gradini della via crucis» (Papa Francesco), si concretizzarono nella vita pubblica di Gesù ed ancor più nel mistero della sua passione e morte. La Tradizione popolare cristiana ne ha identificati sette, espressi nell’iconografia e nella statuaria dalle sette spade che solitamente sono collocate nel petto di Maria Addolorata e che corrispondono a sette episodi evangelici. Non si può rimanere indifferenti dinanzi al volto pallido e pietoso di Maria, alle sue mani strette sul cuore quasi a dire: «Compatitemi, io sono stata la madre più afflitta, più addolorata che mai ci sia stata» (S. Annibale). La Vergine è la desolata: in Lei si concentra e si appoggia il dolore dell’intero universo per la morte del Figlio e si esprime con la bellissima immagine della Pietà, la Madre che sorregge sul grembo il Figlio morto. Maria continua a piangere ancora oggi, nonostante i suoi ripetuti richiami in diverse apparizioni, per lo smarrimento dei suoi figli ed il persistente peccato dell’umanità ed è sempre presente nella vita della Chiesa e dei suoi figli a Lei affidati da Cristo morente sulla croce. P. Angelo Sardone

Il mistero della Santa Croce

«Ecco il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria: l’artefice di tutto il creato è appeso ad un patibolo» (Dalla Liturgia). L’inno dei Vespri odierni nella Festa dell’esaltazione della Santa Croce, adatta il celebre «Vexilla regis» tratto da un componimento latino del vescovo Venanzio Fortunato, redatto in occasione dell’arrivo della reliquia della croce a Poitiers e cantato in tempi liturgici diversi. É uno dei modi con i quali si celebra il mistero della santa Croce, fonte di salvezza. La festa ha origini antiche che risalgono al 14 settembre 335, nell’anniversario della dedicazione di due basiliche edificate da Costantino a Gerusalemme, sul Golgota e al santo Sepolcro, a seguito del ritrovamento delle reliquie della croce ad opera di sua madre sant’Elena. Attorno alla croce, il più terribile strumento di supplizio e di morte, si è sviluppata nel tempo una vera e propria «sapientia e scientia crucis», un itinerario di pensiero e di santificazione che ha visto protagonisti ed interpreti diversi Santi e Sante. La liturgia canta la croce come albero di vita, talamo, trono ed altare, segno visibile dell’eterna signoria di Cristo. Nel suo nome si mosse e si muove l’evangelizzazione, a partire dalle indicazioni di Gesù di Nazaret che chiede ai suoi seguaci di prendere ogni giorno la propria croce. Nonostante continui ad essere «scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili», la croce è la vera arma che sconfigge il male, il segno della riconciliazione, del perdono e dell’amore. Su di essa Cristo ha sperimentato il triplice mistero del patire: i dolori dell’umanità, le ignominie, le pene intime (S. Annibale M. Di Francia). Seguendo la Croce possiamo diventare messaggeri di amore e di pace. P. Angelo Sardone

La parola vera da una bocca d’oro

805. «Ecco il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria: l’artefice di tutto il creato è appeso ad un patibolo» (Dalla Liturgia). L’inno dei Vespri odierni nella Celebrazione della festa dell’esaltazione della santa Croce, adatta il celebre inno «Vexilla regis» tratto da un componimento latino del vescovo Venanzio Fortunato, redatto in occasione dell’arrivo della reliquia della croce a Poitiers e cantato in momenti liturgici diversi. E’ uno degli elementi con i quali si celebra il mistero della croce, fonte di salvezza. La festa ha origini antiche risalenti al 14 settembre 335 nell’anniversario della dedicazione delle due basiliche edificate da Costantino a Gerusalemme, sul Golgota e al santo Sepolcro, a seguito del ritrovamento delle reliquie della croce ad opera di sua madre Elena. Attorno alla croce, il più terribile strumento di supplizio e di morte, si è sviluppata nel tempo una vera e propria sapientia crucis, un itinerario di riflessione e di santificazione che ha visto protagonisti diversi santi e sante. La liturgica la canta albero di vita, talamo, trono ed altare, segno visibile della eterna signoria di Cristo. Nel suo nome si mosse e si muove l’evangelizzazione, a partire anche dalle indicazioni di Gesù di Nazaret che chiede ai suoi seguaci di prendere ogni giorno la propria croce. Nonostante continui ad essere «scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili», la croce è la nuova arma, il segno della riconciliazione, del perdono e dell’amore. Su di essa Cristo ha sperimentato il triplice mistero del patire: i dolori dell’umanità, le ignominie, le pene intime (S. Annibale M. Di Francia). Seguendo la Croce siamo chiamati a diventare messaggeri di amore e di pace. P. Angelo Sardone 

Il Nome santissimo di Maria

«Beato e mille volte beato chi ha la fortuna di portare l’augusto Nome di Maria, Ella gli darà grazie speciali» (S. Annibale M. Di Francia). La liturgia celebra oggi la memoria facoltativa del Nome SS.mo di Maria, la cui devozione sorse in epoca medievale, insieme a quella per il Nome di Gesù. Molteplici sono i significati di questo nome diffuso in maniera incredibile in tutto il mondo, provenienti da interpretazioni diverse a partire dall’egizio Myriam (tale era il nome della sorella di Mosè, nata in Egitto) col significato di «amata da Dio». Alla figlia nata come dono di Dio, i santi vegliardi Gioacchino ed Anna imposero il nome di Maria, benedetta dai sacerdoti del Tempio di Gerusalemme con «un nome rinomato in eterno in tutte le generazioni». La madre di Gesù incarnerà nella sua vita l’alto significato del suo nome e manifesterà nelle molteplici circostanze evangeliche la grandezza dell’amore di Dio riversato nel suo cuore e nella sua identità di Madre di Dio. Tutti i Santi hanno nutrito una particolare venerazione per questo nome. S. Annibale Maria lo proclamava come termine singolare della sua predicazione. Diceva così: «Esorto tutti i padri e le madri di famiglia ad imporre ai loro figliuoli questo Nome; io ho la fortuna di averlo come primo nome. La mia genitrice era devotissima di questo Nome e per questo lo imponeva a tutti i suoi figli». Sia il nome di Maria sempre sulle labbra di ciascuno, onorato col saluto «Sia lodato Gesù e Maria!». Auguri a tutte coloro che lo portano con venerazione e devozione. P. Angelo Sardone

Il vitello d’oro

«Scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato!» (Es 32,7). Il cammino dell’esodo per il popolo d’Israele fu travagliato a causa di difficoltà diverse, compresa la durata, la stanchezza, la mancanza di fede, la nostalgia dell’Egitto. Il testo sacro accompagna l’itinerario passo passo e senza mezzi termini definisce “perversione” il comportamento del popolo col suo allontanamento da Dio ed il ripiego idolatrico. Mentre Mosè era impegnato sul monte nel colloquio con Jahwè e nella ricezione della Legge, il popolo vedendo che tardava a scendere e non sapendo che cosa gli fosse accaduto, chiese ad Aronne di realizzare il segno di un dio che marciasse alla testa della carovana. Pressato, il povero fratello di Mosè si fece consegnare gli orecchini che le donne indossavano e con tutto quell’oro realizzò un vitello, costruì un altare e dichiarò che era quello il Dio della liberazione dalla prigionia di Egitto. Seguì l’offerta degli olocausti, il pasto ed i divertimenti con atteggiamenti di idolatria ed anche atti frenati ed immorali. Mosè non poteva sapere, ma Dio sì. Ecco perché ingiunge al profeta di scendere subito a valle perché il popolo si è stancato, si è allontanato dalla via tracciata, e lo ha ricusato come il suo dio. La storia si ripete puntualmente: la stanchezza, la precarietà e le difficoltà della vita, la nostalgia insulsa di un passato anche di colpa e di fatuo godimento, prende il sopravvento sulla novità che invece Dio prospetta, con la mediazione del profeta di turno. Tanta gente vive, opera e cammina non con gli occhi di fronte, ma all’indietro, pensando con nostalgia a quanto, persone e cose, sono passate, senza il coraggio e l’ardire di guardare avanti col passo e la storia segnati da Dio. P. Angelo Sardone