Paolo conclude il “primo viaggio missionario”

«Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22). Il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba si conclude con il ritorno ad Antiochia di Siria. Il sommario è positivo, nonostante le molteplici difficoltà e le cocenti tribolazioni sofferte soprattutto da parte dei Giudei, che vedevano in loro audaci sovvertitori della purezza della dottrina legata alla Torah e pericolosi assertori di novità della fede. Intanto la predicazione era corredata da interventi straordinari che la potenza del nome di Gesù aveva operato con guarigioni. Non mancano invettive loro indirizzate dai Giudei, particolarmente a Paolo a Listra, una città romana sulla strada da Efeso ad Antiochia, dove viene brutalmente lapidato a furor di popolo fino ad essere ritenuto morto. Ci volle l’accortezza di alcuni discepoli ad evitare il peggio, facendo cerchio attorno a lui permettendo che si alzasse ed entrasse nella città e l’indomani se ne andasse definitivamente. L’apostolo ha piena coscienza che la sua predicazione è costellata da molteplici tribolazioni e sofferenze, necessarie per entrare nel Regno di Dio. Già il Signore l’aveva preparato a tutto questo ed ora le sperimenta una per una nella durezza della prova talora eroica. Tante volte, nella mentalità comune dei cristiani, si pensa che sia tutto facile nella testimonianza e nella proposta del Vangelo di Cristo e che basta affidarsi a Dio che soccorrerà nelle tribolazioni. Non si sbaglia perché effettivamente il Signore sostiene e salva. Il problema è legato al fatto che non si può andare incontro ad una predicazione efficace se non con una preparazione adeguata ed un corredo di virtù, compreso il coraggio e la fermezza per affermare la verità del vangelo, in una società che lo respinge a cominciare talora, proprio dagli ambienti più sacri di vita, nella famiglia. P. Angelo Sardone

La santa del “dolce Cristo in terra”

«Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1Gv 1,5). Si può sintetizzare in questa espressione biblica che la Liturgia odierna riporta, la vita, l’opera apostolica e la santità di Caterina da Siena (1347-1380), patrona d’Italia, dottore della Chiesa, di cui si celebra oggi la festa. La sua testimonianza, anche se lontana nel tempo, è quanto mai attuale per la solidità della dottrina e l’esempio eroico delle virtù con le quali ha costruito la sua santità. Avviata sin da piccola nel cammino di perfezione cristiana, diviene Terziaria domenicana, «mantellata» con un mantello nero sulla veste bianca e, dotata di scienza infusa, vive la sua fede in rapporto mistico con Cristo, e le sue relazioni con personalità di alto rango che a lei si rivolgono. L’ambiente storico è particolare e travagliato per la Chiesa minacciata da movimenti ereticali e la società italiana da lotte e dissidi. Accanto alle superlative attività teologiche di cui sono espressioni le grandi opere «Il Dialogo della Divina Provvidenza», l’Epistolario e la raccolta delle Preghiere, si dedica alla carità verso i poveri, gli ammalati, i carcerati. Fenomeni particolari di bilocazioni, estasi, amore per i sacerdoti e, finanche, il dono delle stimmate, accompagnano la sua esistenza. Le sta a cuore particolarmente il ritorno da Avignone a Roma nella sede pontificia di papa Gregorio XI (da lei definito il «dolce Cristo in terra») e la riforma della Chiesa. Nella simbologia iconografica il libro ed il giglio nelle sue mani, rappresentano la dottrina e la purezza di vita che richiama il suo stesso nome che dal greco significa «pura». Auguri a tutte coloro che portano il suo nome, perché si ispirino a lei nella conduzione della loro vita. P. Angelo Sardone

Marco, evangelista

«Questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi! Vi saluta la comunità che vive in Babilonia, e anche Marco, figlio mio» (1Pt 5,12-13). La conclusione della prima Lettera di Pietro riporta questa importante annotazione che si riferisce a Marco, l’evangelista del quale oggi si celebra la memoria. Già nominato negli Atti degli Apostoli, come Giovanni detto Marco, compagno, aiutante di Paolo e Barnaba, fungeva forse da interprete, avendo ricevuto un’accurata formazione e conoscenza della lingua greca, comune allora come lingua commerciale. La figliolanza con Pietro non è certamente di ordine fisico, ma spirituale, determinato da un rapporto molto profondo. Proveniva infatti da Gerusalemme, sarà compagno di prigionia di Paolo e, come riferito da Papia, vescovo greco del II secolo d.C. fu «interprete» di Pietro, suo accompagnatore a Roma ed autore del secondo Vangelo. La citata Babilonia, inoltre non è altro che un nome ed una località simbolica, riportabile alla città di Roma, come riferito nella letteratura dei rabbini di allora e nell’Apocalisse. Dal momento che era nota la sua avversione verso Israele, per analogia facilmente faceva riferimento a Roma nella quale sia i costumi che l’ostilità verso Dio, determinarono la persecuzione contro i cristiani. Le poche informazioni sulla sua vita sono dovute a Pietro ed a Paolo, soprattutto nella residenza romana. Una tradizione antica lo vuole martire ad Alessandria legato con funi e trascinato per le strade. La leggenda vuole invece che mercanti veneziani l’anno 828 portarono il suo corpo nella città di Venezia di cui è Patrono. Auguri a tutti coloro che ne portano il nome, perché lo imitino nella fedeltà ai propri impegni di vita.  P. Angelo Sardone

In Maria il verbo si è fatto carne

La Liturgia ha trasferito alla giornata odierna la solennità dell’Annunciazione del Signore che cadeva quest’anno nel pieno della Settimana Santa. Prima della riforma liturgica il carattere era prevalentemente mariano. La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (4 dicembre 1963) prescrive che «l’animo dei fedeli sia indirizzato prima di tutto verso le feste del Signore, nelle quali, durante il corso dell’anno, si celebrano i misteri della salvezza» ai quali è associata la beata Vergine Maria. Per questo, l’evento è del Signore vero Dio e vero uomo: diede inizio al mistero dell’Incarnazione di Dio come uomo nel grembo di Maria, come sottolineato dalla scelta del 25 marzo, nove mesi prima del Natale. Un legame vitale unisce Gesù, il Figlio, a Maria, la Madre. Il dato biblico, datato intorno al 732 a.C. è legato al celebre oracolo di Isaia comunicato al re Acaz. La «giovane donna», Maria, concretizza il volere di Dio aderendo al nunzio celeste, l’angelo Gabriele che va da lei, residente a Nazaret, un villaggio fino ad allora mai menzionato nella Sacra Scrittura e le porta il lieto annunzio chiedendo la disponibilità al disegno di salvezza. Superate le titubanze la Vergine accoglie il messaggio dichiarandosi «la serva del Signore». In quell’istante il suo grembo fu fecondato dallo Spirito Santo e in esso il Figlio di Dio si fece carne. In pegno di ciò la tradizione cristiana e la pietà popolare invoca Maria tre volte al giorno, all’aurora, a mezzogiorno e al tramonto con la preghiera dell’Angelus Domini per ricordare questo evento di salvezza. La Santa Casa di Nazaret, custodita all’interno della basilica di Loreto, è la memoria visibile del mistero dell’Annunciazione-Incarnazione di Gesù. Auguri vivissimi a tutti coloro che portano il nome di Nunzio/a, Nunziatina, Tina e derivati. P. Angelo Sardone

La Divina Misericordia

«Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore» (At 4,33). Nella preghiera proclamata subito dopo la liberazione dal carcere, Pietro e Giovanni invocarono il Signore perché si compissero miracoli e guarigioni nel Nome di Gesù. E Dio concesse loro questa capacità espressa in grandi segni di potenza. A quella della Parola annunciata con coraggio si aggiungeva ora la forza dei miracoli. Da allora questa forza viene esercitata nella Chiesa da Cristo morto e risorto, manifestazione concreta della Divina Misericordia di cui è apostola la mistica polacca S. Faustina Kowalska, a seguito delle rivelazioni e dei suoi scritti. S. Giovanni Paolo II, tenendo conto che «soprattutto nel mistero pasquale l’amore di Dio verso gli uomini risplende in massima misura», e volendo esaltare questo grande dono, nell’anno 2000 concesse che nella domenica successiva alla Pasqua, detta «Domenica in Albis», fosse aggiunta la dizione «della divina Misericordia». La ricchezza delle celebrazioni liturgiche di questi giorni è la luce più adatta per comprendere tale devozione: il «Cristo pasquale è l’incarnazione definitiva della misericordia di Dio e suo segno vivente». Nella notte di Pasqua i neo battezzati ricevevano una veste bianca; la domenica successiva tornavano in Chiesa e la deponevano. Di qui l’espressione classica «in albis depositis vestibus», cioè deponendo le vesti bianche. Il segno della nuova dignità di figli di Dio, configura l’identità dei cristiani battezzati come re, sacerdoti e profeti ed insieme a tutti gli uomini sulla terra, li rende oggetto della infinita misericordia di Dio. P. Angelo Sardone

La potenza della fede

«Per la fede riposta in lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi» (At 3,16). La guarigione dello storpio aveva destato tanto scalpore e stupore nel popolo. Approfittando di ciò, sotto il portico di Salomone, Pietro avvia la sua predicazione chiarendo innanzitutto che non procede da lui la forza del miracolo né tanto meno dalla sua bontà, ma è opera di Cristo mediata dalla fede avuta dal noto malato. Questa fede è resa possibile proprio da Gesù risorto che gliel’ha data unitamente alla perfetta guarigione del corpo. La fede ha provocato il miracolo. L’intervento è divino e per essere efficace richiede l’apertura dell’uomo, entrare in relazione di fiducia e di abbandono al Signore che è l’unico in grado di operare prodigi di questo genere. La fede è donata dal Risorto ed è mediata dalla predicazione apostolica. Gli effetti della stessa e della fede che essa suscita diventano palesi ed a tutti si manifestano. Proprio la predicazione, coraggiosa e franca da parte di Pietro, prima pauroso e vigliacco, chiarisce che le azioni ed i comportamenti dei Giudei ostili a Gesù sono stati determinati da ignoranza, la stessa per la quale Gesù dall’alto della croce aveva chiesto al Padre il perdono. Tutto comunque si è adempiuto dando ragione alla letteratura profetica che aveva previsto anche il tragico epilogo della vita del Figlio di Dio. Va ribadita ogni giorno l’importanza della fede nel Cristo risorto come atto di grande fiducia perché, come affermava il grande teologo gesuita, il cardinale Henry De Lubac (1896-1991) «si può credere a molte cose; ma non si dà la propria fede se non a qualcuno». P. Angelo Sardone

Gesù è il Signore

«Gesù di Nàzaret l’avete crocifisso e ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24). La Risurrezione di Gesù è il tema dominante della prima predicazione degli Apostoli dopo la discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo. Viene denominata col termine classico di «kérigma», cioè annunzio. Ormai non hanno più timore di nulla e di nessuno. L’incertezza, i dubbi, la paura che avevano manifestato nel corso della passione e della morte di Gesù sono stati annientati dall’evento della tomba vuota, dalla constatazione oculare fatta da alcuni di loro e, soprattutto, dall’apparizione che il Risorto stesso ha riservato loro. Il disegno di Dio si è compiuto pienamente in Gesù di Nazaret che, sottoposto al duplice giudizio umano, religioso dei Giudei e civile dei Romani, è stato condannato e messo a morte sulla croce. Il merito della Risurrezione è del Padre e della sua potenza, lo stesso che aveva operato grandi prodigi per opera di Gesù. Il suo corpo non poteva essere preda della corruzione e rinchiuso in un sepolcro. Il canto di Davide era profetico: «non abbandonerai la mia vita nel sepolcro né lascerai che il tuo santo veda la corruzione» (Sal 16,10). Ora tutto è chiaro, tutto è realizzato. Alla massima solennità dell’anno liturgico, segue la settimana dell’Ottava di Pasqua col giorno successivo denominato Pasquetta o «Lunedì dell’Angelo», perché ricorda l’incontro dell’angelo con le donne che erano giunte al sepolcro di Gesù e l’invito fatto loro di andare a comunicare agli Apostoli la notizia della risurrezione. C’è sempre un angelo sulla nostra strada che oltre comunicare la gioia degli eventi salvifici, indica una strada da percorrere per la vera felicità. P. Angelo Sardone

Giovedì santo 2024

Giovedì Santo 2024. Col pomeriggio del Giovedì Santo e la celebrazione della Cena del Signore, si entra nel «sacratissimo triduo del crocifisso, del sepolto e del risorto», il Triduo Pasquale che dura fino ai Vespri della Domenica di Risurrezione. In esso la Chiesa celebra i grandi misteri dell’umana redenzione. Come è tradizione in tutte le parti del mondo, nella serata di ieri o nella mattinata odierna il vescovo diocesano convoca nella Cattedrale insieme con il popolo di Dio ed i diaconi, tutti i presbiteri per la «Missa chrismatis» nel corso della quale benedice gli olii dei Catecumeni e degli Infermi e consacra l’olio del Crisma. Inoltre i sacerdoti rinnovano le promesse che caratterizzano l’impegno della loro vita, messa a totale servizio del Signore e del popolo loro affidato. In un clima profondo di preghiera e di mistica contemplazione la Liturgia eucaristica pomeridiana si caratterizza col segno della lavanda dei piedi, ad imitazione di quanto fece il Maestro nel Cenacolo di Gerusalemme, il «memoriale», cioè la «riattualizzazione» dell’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, la reposizione del SS.mo Sacramento sopra un apposito altare, per l’adorazione personale e comunitaria, in alcuni luoghi prolungata per tutta la notte, per la comunione dei fedeli nell’Azione liturgica del Venerdì Santo ed il Viatico degli infermi. Non si tratta quindi affatto del «sepolcro», ma del tributo di gloria e di luce, per l’augusto Sacramento dell’altare che unitamente al Sacerdozio, secondo una mirabile espressione di S. Annibale M. Di Francia, «ad un medesimo parto gemello di amore, là nell’ultima Cena, nacquero dall’infiammato Cuore di Gesù», quando «la carità nel suo più grande trasporto produsse il primo; la carità nel suo fervente zelo produsse il secondo. Per questo sono e saranno inseparabili l’uno dall’altro». Il giovedì santo è la festa dell’Eucaristia cui si associa il ministero del Sacerdozio ad essa deputato e finalizzato. Grazie della preghiera che vorrai elevare oggi al Sommo ed eterno sacerdote Gesù, per tutti i sacerdoti del mondo ed anche per me, indegno suo servo. P. Angelo Sardone

Lunedì santo: primo carme del “servo di Jahwé”

«Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio» (Is 42,1). Nella Settimana Santa, con la straordinaria ricchezza della Liturgia la Chiesa celebra i misteri della salvezza portati a compimento da Cristo negli ultimi giorni della sua vita, a cominciare dal suo ingresso messianico in Gerusalemme fino alla sua Passione. Un elemento importante di riflessione, contemplazione e formazione è la proclamazione dei quattro Canti o «Carmi del servo di Jahwé», riportati dal profeta Isaia tra i capitoli che vanno dal 42 al 53. Oggi, Lunedì santo, è la volta del Primo Canto. Si tratta di un poemetto di pochi versetti nel quale il Servo, figura misteriosa facilmente riconducibile a Gesù, viene presentato come un profeta che è oggetto di predestinazione divina e di una specifica missione. È Dio stesso che lo presenta con termini significativi di condivisione di amore, elezione e compiacenza. Scelto da Dio il Servo, modellato e plasmato, come agli inizi della creazione, viene ricolmato di Spirito, come i giudici e i re, per realizzare la missione di salvezza, non certo facile: portare la giustizia a tutte le nazioni. Il suo tono di voce e di vita è pacato, nonostante che la missione da compiere lo faccia entrare nella realtà del male e della violenza che c’è nel mondo. Rinunzia ad adoperare le armi del male e predilige l’amore e la mitezza non incrinandosi o spezzandosi come la canna. Offre gli occhi aperti ai ciechi, la libertà ai prigionieri, la luce a chi è nel buio. Con criteri molto diversi da quelli umani, affronta la realtà con le armi opposte a quelle adoperate dalla società: la sua apparente debolezza è più forte della forza del male. Ancora oggi, Gesù, servo di Jahwè va in cerca del bene, anche se poco, per poter portare la salvezza all’uomo di oggi. Lo può fare perché è forte, perché ha la pazienza per attendere; può confrontarsi con il male senza avere paura, perché è Dio. P. Angelo Sardone

Le fonti del Pentateuco

«Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione» (Gen 17,9). L’introduzione allo studio ed alla conoscenza della Sacra Scrittura evidenzia già al primo approccio le quattro fonti del Pentateuco, le cosiddette tradizioni: jahvista, eloista, deuteronomista e sacerdotale. Esse costituiscono l’ossatura portante dei testi sacri: si alternano, si integrano e specificano una maggiore loro comprensione. Un esempio tipico è costituito oggi dalla narrazione di una seconda alleanza di Dio con Abramo. Il privilegio di questo grande patriarca di essere stato chiamato direttamente da Dio per la missione di capostipite del suo popolo, si consolida con gli impegni che Dio stesso gli chiede volta per volta. A seguito dell’alleanza con lui stabilita e già citata dalla tradizione cosiddetta jahvista, quando Abramo ha la bellezza di 99 anni, il Signore rinnova il suo patto con lui chiedendo questa volta un segno tangibile nella carne, la circoncisione. Il nuovo racconto è parte integrante della tradizione sacerdotale. Sono sigillate le stesse promesse già fatte da Dio ma questa volta sono imposti all’uomo obblighi di carattere morale. L’elemento scelto da Dio è la circoncisione, una pratica comune a molti popoli, una sorta di iniziazione al matrimonio ed alla vita di gruppo familiare, ma che diventerà caratteristica propria del popolo d’Israele ed indicherà l’appartenenza al popolo scelto da Dio, con gli obblighi da esso derivanti. Il Signore impone le sue condizioni e chiede al Patriarca di osservarle non solo lui ma anche tutta la sua discendenza, per sempre. La fedeltà a questo impegno caratterizza tuttora la vita e la fede degli Ebrei osservanti. P. Angelo Sardone