San Bonifacio, vescovo e martire

«Non ha più paura! Proprio per questo motivo lo hanno già ricercato per ucciderlo» (Tb 2,8). La Bibbia di Gerusalemme colloca nell’ambito dei libri storici quello della storia familiare di Tobi, un pio osservante della Legge deportato a Ninive. È divenuto cieco ed ha un figlio Tobia che sposerà Sara, figlia di Raguele suo parente. Il libro, scritto in Palestina intorno al 200 a.C. probabilmente in lingua aramaica, si ispira a pregressi modelli biblici ed ha un effetto edificante dal momento che evidenzia il senso della famiglia, la pratica dell’elemosina ed i doveri verso i morti. Proprio per aver compiuto il gesto del seppellimento di un ebreo strangolato, Tobi rischia di morire. Alcuni vicini pur esaltando il suo coraggio lo deridono. Lo stesso coraggio ha avuto soprattutto nell’ultima parte della sua vita il vescovo martire S. Bonifacio (673-754) che, strappato dalla sua solitudine monastica, viene inviato da Papa Gregorio II in Germania per l’evangelizzazione delle popolazioni della riva destra del fiume Reno. Lo zelo missionario gli fa percorrere gran parte del territorio germanico nella organizzazione della Chiesa e della celebre abbazia di Fulda, centro di spiritualità e di cultura. Il giorno di Pentecoste il luogo dove si trovava per un incontro con i catecumeni e la S. Messa fu assalito dai Frisoni che l’uccisero con un colpo di spada che dopo aver sfregiato il libro dell’evangeliario col quale si era coperto gli mozzò la testa. Il nome che fu conferito, Bonifacio testimonia inequivocabilmente la sua identità: un uomo dal buon destino, o per la traslitterazione, che ha fatto bene ogni cosa. La sua opera evangelizzatrice si chiuse con l’evento tragico della morte. P. Angelo Sardone

La santa Trinità

«Gloria al Padre e al Figlio ed allo Spirito Santo». La nota dossologia, unitamente al segno cristiano per eccellenza, il segno della croce e la formula adoperata nel Battesimo, sono la manifestazione più comune, verbale e visiva, del mistero centrale sulla quale si fonda la fede, fonte di tutti gli altri misteri: l’Unità e la Trinità di Dio. Nella liturgia subito dopo il tempo della Pasqua e la solennità della Pentecoste, punti nevralgici dell’Anno liturgico, si riprende il Tempo Ordinario e le prime domeniche sono caratterizzate da grandi eventi e dalla celebrazione di grandi misteri. Quello odierno esalta la Santissima Trinità, ossia il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un circolo di amore, di grazia e comunione. I testi sacri evocano diffusamente questo mistero a cominciare dal vecchio Testamento e trovano nel Nuovo, molteplici insegnamenti dichiarativi di Gesù. Questo mistero, infatti può essere conosciuto solo perché rivelato. La Santa Trinità afferma l’unità della natura o sostanza (consustanziale) e la trinità delle tre distinte persone. Le formule trinitarie, presenti nelle lettere di S. Paolo, sono state assunte dalla liturgia come saluto iniziale nella celebrazione eucaristica. Le azioni proprie delle tre persone, secondo la personale loro proprietà, sono la Creazione, opera del Padre, la Redenzione, opera del Figlio, la santificazione opera dello Spirito Santo. I Padri della Chiesa nella riflessione profonda ed avvincente di questo mistero hanno sottolineato la «teologia», cioè la vita intima di Dio e «l’economia», cioè le opere attraverso le quali Dio rivela la sua vita. In questo grandioso mistero si situa la vita del cristiano che è abitato dalla Trinità: un solo Dio in tre persone, la Trinità nell’Unità. P. Angelo Sardone

La testimonianza cruenta di San Carlo

«Il mio piede s’incamminò per la via retta, fin da giovane ho seguìto la sua traccia» (Sir 51,15). Il lungo elogio degli antenati e l’intero libro del Siracide si conclude con un grande inno di ringraziamento, aggiunto, probabilmente, durante l’epoca dei Maccabei. Nella ricerca della sapienza viene evidenziato come da giovane il pio israelita la trovi nella preghiera. Essa rallegra il cuore e fa percorrere la via retta fin da giovane per seguirne la traccia nell’età matura con l’abbondanza dell’insegnamento. I progressi accumulati lungo il cammino stimolano a continuare a mettere in pratica la Parola con un allenamento costante della propria anima che si specchia nella purezza. Questo inno di gratitudine a Dio per il dono della fede e della ricerca costante della sapienza si applica alla vita di S. Carlo Lwanga, capo dei paggi del re, e ai suoi 21 compagni martirizzati in Uganda tra il 1885 ed il 1887. La fede ricevuta nel Battesimo amministrato dai Padri Bianchi, aveva sortito in lui una testimonianza coerente e fedele fino all’eroismo, soprattutto quando il re, distolto e mal consigliato dagli stregoni locali, si era rivoltato contro i cristiani mandandoli a morte, trafitti da lance, impiccati, inchiodati agli alberi e arsi vivi. Pregano sino alla fine, non piangono e danno una testimonianza altissima di fede. «Quando noi non ci saremo più, altri verranno dopo di noi», afferma uno di loro prima di spirare. Questo sangue, divenuto seme per nuovi cristiani dell’Africa, testimonia la coerenza ed il coraggio della fede, oggi probabilmente molto annacquato in una società che abiura i valori anche quelli più naturali ed umani, in nome di un assurdo deismo incapsulato in una vita scellerata e godereccia. P. Angelo Sardone

Solennità di S. Annibale Maria Di Francia

«Pel Rogate non diciamo nulla: vi si dedicò; o per zelo o fissazione, o l’uno e l’altro». Così, in forma decisa e chiara, scriveva di se stesso S. Annibale M. Di Francia nell’autoelogio funebre che approntò per evitare che altri potessero esagerare negli elogi. Come era suo costume, calcò tanto sui suoi difetti, ma nella sua semplicità e sincerità, in riferimento al carisma del Rogate, ossia la preghiera e l’azione per le vocazioni, non poté non affermare che questa straordinaria verità. Era mercoledì 1° giugno 1927, alle ore 6.30 del mattino, quando in Contrada Guardia, la residenza estiva delle suore Figlie del Divino Zelo, ad una dozzina di chilometri da Messina, all’ombra del santuario mariano omonimo, dopo una notte insonne e sofferente, all’età di 76 anni, chiudeva la sua giornata terrena. Per volere dei medici si era lì trasferito il 9 maggio per godere dell’aria salubre nel tentativo di rimettersi in salute. Ma così non fu. Trascorsero 22 giorni ed il mistero della morte si compì proprio all’inizio del mese successivo, dopo che il 31 maggio a prima mattina, aveva goduto dell’apparizione della Madonna Bambina che veniva ad aprirgli le porte del Paradiso. Un vecchietto del luogo affermò candidamente: «Si è chiusa la bocca che non disse mai no!». Alle 21.30, dopo una giornata intensa di emozioni e di dolore, il feretro portato a spalla per la fiumara nella via litoranea, sopra una camionetta raggiunse il santuario di S. Antonio in Messina e fu collocato sopra un catafalco. Tutti poterono ammirare «il santo che dorme». Da allora quel giorno ha segnato la storia rogazionista, divenendo commemorazione annua e, dalla sua beatificazione prima e dalla canonizzazione dopo, il giorno della festa dell’Apostolo della preghiera per le vocazioni e Padre degli orfani e dei poveri. P. Angelo Sardone

Benedetta tu fra le donne. Magnificat.

«Rallégrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!» (Sof 3,14). Alla festa della Visitazione della Beata Vergine Maria, la liturgia riserva un bellissimo testo di Sofonia, un profeta del VII sec. che predicava al popolo in un’epoca di corruzione generale per l’abbandono della Legge mosaica e l’adito ai culti pagani provenienti dagli Assiri e dai Cananei. Il suo grido di gioia che riecheggia quello di Isaia, afferma chiaramente che nelle viscere e nel grembo della Figlia di Sion c’è la presenza viva del Signore, ed allude a Maria che porta nel suo grembo il Salvatore potente. Dopo aver ricevuto l’annuncio dell’Angelo Gabriele ed aver dato il suo assenso alla volontà di Dio, Maria viene fecondata dalli Spirito Santo ed il Verbo di Dio si incarna nel suo grembo. In tutta fretta poi si mette in viaggio per Ain Karin, in Giudea, dove vive l’anziana sua cugina Elisabetta che, come le ha detto l’angelo, attende un bimbo ed è al sesto mese di gravidanza. L’incontro tra le due donne è straordinariamente ricco di emozioni, sentimenti e profezie. Elisabetta percepisce il mistero che la giovane sua cugina porta in grembo dal sussulto che il suo bimbo compie nel suo grembo ed ispirata la definisce «benedetta e beata perché ha creduto». Dalle labbra di Maria prorompe allora il grandioso cantico del «Magnificat», sintesi mirabile di quanto di più bello e di più grande l’umile serva possa dire a Dio in termini di gratitudine e di gloria. Col rinnovamento liturgico la festa della visitazione è stata collocata a conclusione di maggio a coronamento del mese che la devozione popolare dedica al culto speciale della Vergine. Il pellegrinaggio ad un santuario mariano o il servizio ad una persona nel bisogno, possono bene evocare il senso vero della visita di Maria ad Elisabetta. P. Angelo Sardone