P. Cesare non c’è più

Con cuore straziato comunico che questa mattina il Signore ha chiamato a sè, dopo un calvario di sofferenza, P. Cesare Bettoni (1953-2020) un intelligente, generoso e saggio Rogazionista, amico fraterno e mio compagno di cammino e di ordinazione. Un ricordo affettuoso per lui nella preghiera. P. Angelo Sardone

Essere prete è bello

Mattutino di speranza
Giovedì 21 maggio 2020
La crisi delle vocazioni sacerdotali e religiose è la manifestazione di una più profonda crisi di fede. L’adagio non è nuovo. Particolarmente in questi ultimi anni si trascina nella Chiesa e nella società una grande preoccupazione ed una accurata riflessione su questo grave problema. Non bastano la convegnistica, le ricerche sociologiche, le analisi accurate degli psicologi, le esperienze nuove e le soluzioni propinate dagli “esperti nel campo” come possibili, ma che si sono rivelate claudicanti; occorre guardare il fenomeno con occhi della fede e di un concreto e serio realismo. I tempi moderni hanno favorito lo sviluppo della comprensione della realtà della vocazione, passando da un concetto relegato solo ed esclusivamente al sacerdozio ed alla vita religiosa, ad uno più ampio riferito a tutti i battezzati, in forza della loro configurazione a Cristo, re, sacerdote e profeta, ed alla prima e fondamentale vocazione del cristiano, la santità. Tutti siamo chiamati, dunque, a realizzare un progetto di amore di Dio che passa attraverso le diverse scelte che scaturiscono proprio dal Battesimo e dalla maturità della vita cristiana. Tutti siamo parte del pensiero di Dio frammentato nella personalità di ciascuno che rimane unico, irripetibile ed indispensabile a suoi occhi, come l’anello di una grande catena. Tutti avvolti dentro un “mistero” di amore e di fede che lascia sempre perplessi e pensosi dinanzi ai diversi destini che Dio riserva per ciascuno. Allo sviluppo della conoscenza teorica e scientifica del mistero della vocazione, sembra però non corrispondere in maniera ancora più profonda e leale, concreta e decisa, la pratica della disponibilità, soprattutto da parte dei giovani e delle famiglie, all’azione di Dio che in forza del suo amore, continua a chiamare ed a mandare. La realizzazione piena del Regno di Dio sulla terra, dopo il suo “tutto è compiuto” proclamato dal trono della croce, Gesù l’ha voluta affidare ai 12 apostoli caratterizzati già nella loro identità nominale come “mandati, inviati”. Le regole della missione apostolica sono racchiuse nel tratto evangelico di S. Luca agli inizi del 10° capitolo. Sono basate sulla fiducia ed abbandono alla Provvidenza di Dio ed anche sul dovere dell’annunzio. Ma per troppo tempo, 19 secoli circa, non è stato tenuto in grande considerazione ed è rimasto pressoché nascosto se non invisibile nel Vangelo, il divino comando di Gesù che lega il dono e la presenza degli “operai del Vangelo” fondamentalmente alla preghiera. Per questo il Signore ha suscitato nel profondo sud dell’Italia, un uomo, un sacerdote, Annibale Maria Di Francia che ha intuito la necessità della preghiera per le vocazioni e ne è diventato “apostolo”. Il tramite dell’intuizione e la forza vitale del suo impegno apostolico è stato Gesù Eucaristico contemplato, adorato e supplicato quando aveva appena 17 anni. Poi tutto si è svolto in un cammino duro e faticoso, talora anche “scabrosissimo” lungo i sentieri dell’incomprensione, della difficoltà di dover sempre ricominciare, degli stenti e fatiche in un ambiente ed un terreno assolutamente povero fecondato dalle lagrime, dagli affanni e spasimi. E questo per tutta una intera esistenza, movendo cielo e terra. Oggi la preghiera per le vocazioni supera la dimensione strutturale delle due Congregazioni da lui fondate, le Suore Figlie del Divino Zelo ed i Rogazionisti del Cuore di Gesù, perché appartiene a buon diritto alla Chiesa intera che se ne fa interprete e propulsore con la Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni, l’animazione vocazionale e la diffusa sensibilità nel popolo di Dio. Ma quanto cammino c’è ancora da fare, riscoprendo i valori fondamentali connessi da Gesù stesso alla preghiera in quanto tale, che fa rendere disponibili alla chiamata di Dio uomini e donne che donino a Lui la freschezza della loro giovinezza e bellezza e non gli scampoli dell’età e della vita, passando talora attraverso molteplici esperienze di eterno discernimento e sbavature pseudo-spirituali. Negli anni settanta sulle riviste cattoliche e non, girava uno slogan “Essere prete è bello”, collegato col viso sorridente di un giovane, il bello di turno, accattivante, quasi da modello. Non è la bellezza fisica ad attrarre o l’illusione di una vita senza pensieri, senza il peso di una famiglia o di un lavoro cui pensare, mistificata in chissà quale mellifluo rapporto con un Gesù mitizzato e spesso non evangelico, inquadrata nel “sostentamento clero” o nella sicurezza economica di un convento o di un monastero. Ciò che attrae e deve attrarre è il volto di Cristo ed il suo annientamento per le anime, lo spendersi generoso per un ideale di amore vero e profondo per l’umanità espressa come “pecore” che il Signore padrone della messe e pastore eterno delle anime, affida fiduciosamente alla povertà di un uomo, dotandolo di compassione e tenerezza che supera la paura umana della inettitudine, della solitudine, dell’incomprensione, del rigetto. Se si supera questo ostacolo gettandosi coraggiosamente in un itinerario di fede più matura e se si attua il comando di Gesù, come diceva il cardinale Fernando Cento “le vocazioni verranno”. Questo io personalmente sperimento da quarant’anni, da quando cioè sono prete, questo mi sforzo di annunziare e testimoniare. P. Angelo Sardone

Il presente nelle nostre mani

Mattutino di speranza

Mercoledì 20 maggio 2020

Il futuro, anche quello prossimo, rimane sempre un mistero. Per quanto l’uomo possa ipotizzarlo, programmarlo, pianificarlo, esso è sempre avvolto in un enigma arcano, regolato fondamentalmente da forze che superano la capacità intellettiva e la limitata natura umana. Dio ha inserito le creature viventi in quelle che il grande filosofo Aristotele chiamava le “categorie” dello spazio e del tempo. Ha affidato all’uomo, in termini di collaborazione, condivisione e responsabilità, il dominio del creato con le sue leggi, alcune evidenti, tante altre da scoprire, rimettendosi però sempre alla volontà del Creatore che è sopra ogni cosa e vigila su tutto. La verità del proverbio antico suona sempre attuale: «L’uomo propone, Dio dispone!». Di fronte alla grandezza e alla bellezza del creato, dinanzi al mistero della vita che scorre via con le gioie ed i dolori, dinanzi al progresso della scienza in tutti i campi, alle scoperte sorprendenti della tecnica, alla qualità stessa della vita, cose tutte nelle quali è impegnata l’intelligenza umana, alla ricerca sempre più viva di una conoscenza sempre più illimitata e nell’attuazione di un piano infinito di provvidenza, sgorga il canto: «Tutto viene da Te Signore, tutto esiste grazie a Te, tutto tende verso di Te». Lo spazio che il Signore ha affidato all’uomo è la terra e l’intero universo ancora tutto da scoprire. Il tempo che gli ha donato si delinea in tre grandi sezioni: il passato, il presente, il futuro. Secondo la riflessione di grandi Santi, in particolare S. Agostino, il passato appartiene alla “Misericordia” di Dio; il futuro alla sua “Provvidenza”; il presente alla “Responsabilità” dell’uomo. Tutto ciò che è stato, è stato: può essere considerato, valutato, rivisto, rifiutato, emendato, ma ormai è nelle mani di Dio e del suo giudizio misericordioso. All’uomo spetta il potere ed il dovere di imparare dal passato a vivere bene il presente evitando gli errori ed orientandosi verso il bene. Analogamente il futuro è nelle mani di Dio: per quanto l’uomo possa disporre, vedere in lungimiranza, ipotizzare, programmare, deve comunque affidarsi al volere di Dio che vuole il bene per ogni creatura e per il quale «finanche i capelli del nostro capo sono contati» (Lc 12,79). Ciò esige pertanto una vita di fiducia ed abbandono in Chi si prende cura delle sue creature che valgono molto più dei passeri, ed hanno una bellezza superiore a quella dei gigli del campo (Mt 6,26). All’uomo rimane dunque la categoria dell’oggi, il presente, che è nelle sue mani perché con intelligenza e buonsenso può fare e disporre nel bene e nel male, di persone, cose ed avvenimenti. Dal passato che non possiamo facilmente relegare nella dimenticanza e dal futuro che si proietta davanti a noi come opportunità, occorre imparare la lezione per vivere bene il presente, in termini di “scrutatio” come dicevano gli antichi, nel senso di considerare, meditare, valutare ciò che è stato, per poi agire in “potentia”, ossia mandare a perfezione tutto ciò che passa per le mani ed è oggetto di utilità personale e comune. Il passato porta con sé il bagaglio di apprendimento, conoscenza ed esperienza sia nel bene che nel male. «Io sono oggi quello che ho costruito ieri». Il futuro sarà la proiezione dell’oggi nel domani, che porta, se vogliamo responsabilmente e coscientemente, alla sublimazione ed alla perfezione. E questo in tutti i campi, da quello scientifico, culturale, morale, fino a quello propriamente spirituale. La vita che il Signore ci concede sulla terra, quella che anche oggi svegliandoci abbiamo ripreso nelle nostre mani, deve essere inquadrata nel miglior modo in questo lasso di tempo che si chiama “presente” per fare il bene ed evitare il male. La nostra esistenza, infatti, per quanto la medicina e la qualità della vita ha notevolmente allungato, rimane pur sempre limitata, I Salmi lo attestano: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via» (Sal 90, 10), ed ancora: «Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa; solo un soffio che si agita, accumula ricchezze e non sa chi le raccolga» (Sal 39,6-7). Quanto mai attuali sono queste indicazioni che Dio stesso ha messo sulla bocca del profeta Davide che le ha riportate nei salmi, ossia la preghiera cantata propria dell’antico Israele e del nuovo popolo della Chiesa. In essi si rispecchia la nostra vita di ieri, questa di oggi, quella del prossimo futuro; dal loro apprendimento, se vogliamo, pur nella tribolazione, nella precarietà globale del presente e nell’inconscio del futuro, possiamo dare un senso migliore alla nostra vita. Il segreto, come diceva Socrate sta nel «concentrare tutta l’energia nel costruire il presente».  P. Angelo Sardone

L’alterità

Mattutino di speranza,
Martedì 19 maggio 2020.
Il cammino della vita è segnato dall’alterità. L’uomo è stato creato non per rimanere solo; Dio lo ha dotato di un aiuto che gli corrisponda (Gen 2,18). L’universo, il creato, le piante, gli animali, cose tutte messe sotto il suo dominio, non possono mai soddisfare pienamente il bisogno innato dell’uomo di avere accanto il proprio simile e di relazionarsi con lui. La descrizione fatta dal libro della Genesi ha un carattere antropomorfico, nel senso che l’autore sacro si serve di forme ed espressioni letterali comprensibili dalla mente e proprie della realtà umana. La donna, che si dice tale, proprio perché tratta dall’uomo, è l’aiuto che più perfettamente gli corrisponde. È molto significativa l’affermazione di Adamo quando si sveglia dal torpore indotto da Dio e vede accanto a sé Eva: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2, 23). L’istituzione della famiglia, la diffusione della vita umana sulla terra e la costituzione della società, hanno evidenziato, secondo il disegno del creatore, la necessità della relazione con l’altro, il bisogno di fare gruppo, di essere comunità, di camminare insieme. Dio stesso ha manifestato e messo in atto questa alterità quando si è scelto un popolo, lo ha collocato in un territorio suo proprio, gli ha dato Provvidenza, lo ha condotto per strade impervie ed ha stabilito con lui un’alleanza d’amore alla quale non è venuto mai meno. La debolezza causata dal peccato dei progenitori e perpetuata nelle vicissitudini di allontanamento volontario da Dio, ha fiaccato la capacità dell’uomo nell’impegno alla fedeltà ed alla relazione con Dio, non nei termini di chi sta alla pari, ma di subordinazione e sudditanza di amore. Con la venuta di Cristo nel mondo e la costituzione della Chiesa, nata dal costato aperto di Cristo sulla croce, vivificata e guidata dall’azione dello Spirito Santo, l’uomo ancor di più avverte il senso della pienezza che scaturisce dallo stare accanto all’altro, dal vivere la dimensione comunitaria dell’appartenenza al popolo di Dio, incamminato per il sentiero della verità e della santificazione. La comunità cristiana ed ogni singolo individuo si scopre sempre più parte integrante di un progetto di amore che la vede orientarsi al bene per realizzare il piano di salvezza. Ciascuno quindi non cammina da solo. A maggior ragione quando l’uomo deve affrontare le difficoltà, far fronte alle situazioni di disagio, dolore, sofferenza. Nel 1955 fece epoca il saggio letterario «Nessun uomo è un’isola» del monaco trappista americano Thomas Merton che riprese una meditazione di John Donne (1572-1931) poeta inglese, per esprimere che l’uomo, a causa dell’amore di Dio vivo ed operante in Lui, pur essendo completo in se stesso, è parte dell’umanità. Fa tanto avere accanto qualcuno che ti comprende, ti sorregge, cammina insieme con te. Il supporto reciproco di affetto, attenzione, premura, solidarietà, condivisione, anche al di là dei parametri della carne e del sangue, aiuta l’uomo a dare più senso alla sua vita e ad essere felice. La sapienza divina l’ha previsto. Il testo sapienziale del Siracide afferma: «Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi» (Sir 4,9-10). Dio ha messo accanto a ciascuno un angelo perché lo custodisca e lo guidi. Ha conferito inoltre al sacerdote la capacità ed il compito di essere guida, padre, fratello ed amico per chi gli si affida. Lo ha dotato di un potere sacramentale che supera la capacità umana di saggezza e competenza. Se si cammina insieme con lui, nonostante le inevitabili sue mancanze dovute alla natura umana e la sua vulnerabilità, si ha la garanzia di essere sollevati quando si cade, di essere consolati, quando si è tristi e soli, di essere rinforzati dalla Grazia sacramentale da lui amministrata quando con sincerità ed umiltà si confessa la propria colpa e ci si affida. Questa non è semplicemente teoria. Per comprenderla appieno bisogna farne esperienza. P. Angelo Sardone

Ricominciamo

Mattutino di speranza

Lunedì 18 maggio 2020

 

Oggi, seppure con gradualità, si dovrebbe tornare alla normalità nelle relazioni sociali, nel lavoro, nella pratica sacramentale, nella partecipazione comunitaria alla Liturgia, il cui culmine e fonte è la celebrazione eucaristica che avviene ogni giorno. Per tanti, in tutto questo lasso di tempo, la “a-normalità” potrebbe essere diventata una sorta di “normalità”. Quando ci si abitua al buio, infatti, le stesse tenebre accecano gli occhi e la luce presa tutta d’un botto, può accecare. Allora bisogna essere graduali nella ripresa: non deve mancare affatto la prudenza e l’obbedienza alle norme stabilite. Dobbiamo ringraziare il Signore perché, se per un tempo abbastanza lungo abbiamo pensato di essere stati esclusi dalla sua presenza, Lui ha ascoltato la voce della preghiera quando gli abbiamo chiesto aiuto con fiducia ed abbandono. Ora è iniziata e ci attende la ripresa delle cose giornaliere, gli impegni della normalità della vita, anche se permangono restrizioni prudenziali. Intanto si ricomincia a vedere. Quando poi ci sarà una certa sicurezza evidenziata da indicazioni superiori ed oggettivamente valide, potremo dire di tornare alla più larga normalità. Mi viene da pensare all’episodio evangelico della guarigione del cieco di Betsaida come riportato dall’evangelista Marco: Gesù che era stato pregato di guarire un uomo cieco, lo prese per mano, lo condusse fuori del paese, bagnò i suoi occhi con la saliva e impose le mani su di lui. Quindi gli chiese: «Cosa vedi?». Ed il cieco, non più cieco rispose: «Vedo la gente perché vedo come degli alberi che camminano». Gesù nuovamente pose le sue mani sugli occhi dell’uomo e finalmente egli riuscì a vedere distintamente anche da una lunga distanza (Mc 8, 2-26). Una lettura superficiale potrebbe sentenziare che il miracolo non è riuscito per il fatto che Gesù è intervenuto per la seconda volta. Ma non è così. Il miracolo c’è stato, eccome, ma è stata graduale la ricezione del cieco, perché prima è stata sanata la sua fede e poi la parte malata del suo corpo. Gli interventi di Gesù sono sempre pedagogicamente significativi ed oltrepassano la comprensione umana sempre molto limitata. L’insegnamento che se ne trae è che tutto deve essere graduale, anche nella ripresa della situazione propriamente spirituale. La fretta di tornare in chiesa causerà in più di qualcuno qualche delusione per le precauzioni imposte e da adottare già all’ingresso, seguendo il percorso segnato, prendendo il posto indicato, continuando ad indossare la mascherina ed i guanti. Torneranno alla mente e sulle labbra lecite obiezioni, rimbrotti indirizzati ai governanti di turno, al comitato scientifico, alla CEI, perché sono loro che non capiscono, non sanno. E poi l’assenza per tanto tempo da queste cose e da questi luoghi ha acceso un desiderio maggiore di tornare a popolare chiese e cibarsi dei sacramenti. Ma è proprio così? Gesù aveva previsto questo quando, con estrema chiarezza, aveva indicato la stanza del proprio cuore come luogo per ritirarsi in preghiera profonda ed incontrare Dio: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6, 6). La ristrettezza è analoga alla stanza chiusa: se lì abbiamo davvero pregato ed incontrato il Padre con la sua misericordia ed infinita pazienza, non sarà difficile ora poterlo incontrare e cibarci del corpo immacolato del suo Figlio con l’Eucaristia, la Parola proclamata nella S. Messa, con la carità da esercitare verso chiunque incontriamo sul nostro cammino. Una cosa è certa: il Signore non ci ha consegnato nelle mani del nemico ed ha guidato i nostri passi. Ma potremmo correre il rischio di allontanarci o essere allontanati dagli altri per paura. La sapienza divina l’aveva previsto: sono divenuto «obbrobrio dei miei nemici, disgusto dei miei vicini, orrore dei miei conoscenti» fino al punto di pensare «chi mi vede per strada mi sfugge» (Sal 30). E’ necessario che, con l’intelligenza della mente e del cuore, rinfrancati da questo spiraglio di libertà fortemente desiderata, noi siamo realmente forti e riprendiamo coraggio una nuova strada che speriamo sia il risultato di una nuova vita. P. Angelo Sardone

Il ritorno all’Essenziale

Mattutino di speranza

Domenica 17 maggio 2020

 

La celebrazione eucaristica domenicale esprime la vocazione dei cristiani ad essere Chiesa, cioè assemblea di persone chiamate da Dio per annunciare le sue meraviglie, fare memoria della Pasqua di morte e risurrezione di Cristo, vivere la gioia che scaturisce dalla condivisione della fede e dalla missione salvifica nel mondo. Secondo una bellissima espressione di S. Atanasio, essa rende solidali e fonde nell’unità della fede vicini e lontani, presenti ed assenti. La Messa è il banchetto nuziale al quale siamo tutti invitati, portando però l’abito di festa per non rischiare di essere cacciati via nelle tenebre dove c’è pianto e stridore di denti (Mt 22,14). In questi mesi siamo stati privati dalla partecipazione fisica, personale e comunitaria nelle nostre chiese alla S. Messa, e ci siamo dovuti accontentare del Pane della Parola e del Pane della carità che nella Messa, precedono ed accompagnano il dono del corpo e sangue di Gesù. Questa mancanza è stata determinata da motivi prudenziali e dall’obbedienza che abbiamo esercitato in nome del bene comune, onde evitare conseguenze disastrose per l’incolumità fisica nostra e degli altri. Abbiamo fatto delle nostre case le nostre chiese ed in analogia a quando viviamo abitualmente la domenica, abbiamo potuto seguire anche ogni giorno, attraverso i molteplici canali di comunicazione, da quelli istituzionali a quelli improvvisati dalla fantasia pastorale di parroci e religiosi, la celebrazione della S. Messa. Ognuno, papa, vescovi, parroci, religiosi, ha cercato di sopperire alla mancanza del contatto fisico con Gesù ricevuto nel mistero dell’Eucaristia, con parole di consolazione, di speranza, di nutrimento spirituale. Non è mancata la forza della Parola e le indicazioni chiare per un nuovo cammino umano, spirituale e comunitario che si profila dinanzi ai nostri occhi ed alla nostra vita. Insieme con l’Eucaristia è mancato il rapporto sacramentale con Dio con la riconciliazione, mediato dalla presenza e dal servizio di misericordia esercitato dal sacerdote. E ciò è avvenuto proprio in coincidenza della celebrazione annuale della Pasqua, cui si appellano le norme giuridiche della Chiesa in riferimento alla ricezione di questi sacramenti. Le indicazioni che sono state offerte sono servite certamente per riscoprire il valore della preparazione corretta al sacramento della penitenza, attraverso la presa di coscienza seria della propria situazione di disagio morale, il dolore per il peccato, ossia la contrizione perfetta che già immette e fa gustare l’efficacia del perdono di Dio. Ora che si spera di tornare gradualmente alla normalità, con una mente nuova, provata dal bisogno e maturata attraverso la sofferenza e la forzata mancanza di realtà indispensabili alla crescita della vita spirituale, occorre riprendere non la vita di prima, ma la vita nuova con una qualità superiore a quella antecedente e con la consapevolezza che qualcosa è cambiato! Spero tanto che il ritorno fisico in chiesa per la celebrazione eucaristica segni il ritorno all’essenziale; che la ripresa del sacramento della confessione porti nel cuore dei sacerdoti che l’amministrano e dei fedeli che la richiedono, la gioia vera dell’incontro col Padre misericordioso e non si traduca in uno scarico psicologico-esistenziale di tensioni accumulate, di vizi vecchi ripresentati e nuovi, appresi e favoriti dal fermo, con meschini surrogati, distributori gratuiti a tutte le ore, di sensazioni appaganti e frustranti. Sono certo che riprenderemo ad alzarci, splendenti di candore, come la sposa del Cantico dei Cantici (Ct 8, 5). Ma splenderemo davvero se, come afferma S. Agostino, saremo rinnovati dalla grazia che salva e che ci viene offerta con generosità ed in abbondanza nei sacramenti. Perché nell’Eucaristia Gesù ci ama di amore eterno (S. Annibale) e nella Riconciliazione diventiamo uomini e donne veramente nuovi. Questo io spero, perché credo nella potenza salvifica dei sacramenti e nella intelligente capacità dell’uomo di aderire a Dio, nel quale si trova la vera felicità e la pienezza di ogni cosa! P. Angelo Sardone

Solo l’amore si rigenera e ti rigenera

Mattutino di speranza
Sabato 16 maggio 2020
L’amore rigenera sempre, è un divenire continuo, una forza insopprimibile della natura, è l’impronta di Dio nell’uomo. Il sommo poeta Dante Alighieri chiude l’intera Divina Commedia con una espressione definitiva e definitoria di Dio: «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 145). L’amore divino, sublime, “altissimo, onnipotente e buono”, infinito, si relaziona intimamente con l’amore umano, imperfetto, vulnerabile, fallace, ma proiettato oltre il finito. Dio, come una fonte inesauribile, riversa nel cuore dell’uomo l’acqua viva della conoscenza, delle virtù, del suo amore senza limiti per tutte le creature. La dimostrazione più grande è il dono del suo Figlio che si è fatto in tutto simile all’uomo, eccetto il peccato, per riportarlo alla primitiva dignità perduta col peccato e ristabilire la sua alleanza di fedeltà e di amore. La definizione più completa Dio se l’è data da solo: è “Amore”. La storia del pensiero ha riservato per l’amore infinite pagine profonde e coinvolgenti, con esplicitazioni, attributi, esperienze; la letteratura e le arti lo rappresentano con una straordinaria ricchezza di immagini, sensazioni, emozioni. L’amore è vivo, casto, platonico, sensuale, appassionato, travolgente, oblativo. Le sue forme primarie vanno da quello parentale-familiare (storge), cioè affetto naturale o istintuale, amore di appartenenza, l’amore di un genitore verso i figli e viceversa, a quello di amicizia, di affetto e piacere (philìa), dal desiderio sessuale e romantico (éros), dall’amore passionale momentaneo che esige soddisfazione (hìmeros), all’amore spirituale (agàpe), che esprime il dono totale di sé, un amore di ragione, che se anche non è ricambiato, è incondizionato e giunge fino ad annientamento. La teologia identifica questo amore con Dio che ama, crea, si interessa dell’uomo e non lo abbandona al proprio destino; col Dio che per amore sacrifica suo Figlio per la redenzione dell’uomo. La peculiarità di questo amore è l’oblazione. Gesù Cristo l’ha espressa con gesti concreti (la lavanda dei piedi), col dono che perpetua la sua presenza nel mondo (l’Eucaristia), con la sua passione e morte. Un amore che non si colora di umiltà, di servizio, rinunzia e sacrificio non è amore. Diversa è la filantropia, disposizione d’animo verso il proprio simile, sentimento naturale di benevolenza e di solidarietà nei confronti dell’altro che condivide una medesima situazione e trova un’ancora di salvezza nel reciproco sostegno. Il vertice dell’esaltazione dell’amore in termini di attributi qualificativi ed operativi, si trova nella didattica teologica e pastorale dell’apostolo Paolo. Nella Prima Lettera ai Corinzi, li delinea con una levatura altissima, nel celebre Inno alla carità o Inno all’amore, una delle cose più belle che siano mai state scritte (1Cor 13, 1-12). Nella ordinarietà della sua esistenza, nelle relazioni dentro e fuori la famiglia, nei contesti sociali ed ecclesiali, il cristiano con questi termini dà senso alla vita, anche quando il senso non c’è. La vera condivisione ed il vero amore vanno oltre le espressioni eufemistiche che spesso fanno da supporto e contorno nelle relazioni affettive sociali e spirituali, amichevoli e sentimentali, che possono rivelarsi anche false ed ingannevoli, egoistiche e interessate e che sfociano talora nel disprezzo duro e violento dell’altro. Si esprimono invece nell’oblazione, sino alla fine e a qualunque costo. L’insegnamento di Gesù è inequivocabile: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per la persona che si ama» (Gv 15,13). Io che non sono un mestierante del sacro, ho imparato da queste sublimi lezioni, ed anche da quella che tu, senza accorgertene mi dai, ad ascoltarti, ad ascoltarmi e a morire di amore, anche per te, per amore di Cristo. Giorno dopo giorno, passo dopo passo, anche quando tu dovessi mostrarti indifferente o voltarmi le spalle. P. Angelo Sardone

La Provvidenza di Dio

Mattutino di speranza
Venerdì 15 maggio 2020
Il Signore non fa mancare la sua Provvidenza. Egli dona secondo i bisogni e le esigenze di chi a Lui si rivolge con fede. Potrebbe sembrare un calmiere illusorio che mette a tacere con capacità oppiacea il bisogno reale, soprattutto in questi tempi, non solo di consolazione e speranza, ma soprattutto di pane e salute, di stabilità lavorativa, di futuro. Il Maestro esorta a non affannarsi per il mangiare, il bere, il vestito; invita a guardare gli uccelli del cielo nutriti dal Padre e i gigli del campo che da Dio sono vestiti e crescono senza lavorare. Non mancherà la Provvidenza perché il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno e tutto darà in aggiunta. E’ invece importante cercare prima di ogni cosa il Regno di Dio e la sua giustizia (Mt 26, 25-33). Nell’attuale contingenza storica sono diventate precarie tante risorse per assicurare una vita dignitosa e senza affanni e la pazienza dell’uomo e la sua fede sono messe a dura prova. Tanti posti di lavoro sono saltati; tante attività di piccolo e medio commercio rischiano di scomparire del tutto. Le modalità nuove di gestire il lavoro, la scuola, le relazioni, lo studio da casa, cose che sembravano finora riservate solo a chi lo chiedeva ed invece sono state imposte, cose ritenute del tutto provvisorie almeno fino a quando la pandemia non scemerà, finiranno per diventare stabili. Ci si deve adeguare con una mentalità nuova ad un nuovo modo di gestire le cose che condizionerà anche le relazioni. Tante persone hanno paura: il terrore del contagio supera talora il desiderio di uscire all’aria libera. Pur essendo sopravvenuta la stanchezza per il nuovo modo di gestire il tempo, la casa, il lavoro, lo studio le relazioni sociali, intrafamiliari, ecclesiali, pur essendoci in un certo modo abituati a questo nuovo ed insolito regime, temiamo per quello che può nascondersi nel condominio e nei luoghi abituali di contatto umano. Certamente non è solo questione di mascherine protettive e di guanti da indossare quando si esce, ma di assumere una mentalità nuova di salvaguardia preziosa della salute propria ed altrui. I condizionamenti sono tanti, ed anche le preoccupazioni. In questo stato di cose tanti sono diventati maestri e comunicano sulle piattaforme digitali le loro ricette efficaci, accattivanti e persuasive. Chissà se si tratta di una psicosi collettiva morbosa che fa liberare dal male ridendo o cantando, come un modo apotropaico per tenere distante il pericolo, la stanchezza, la paura. Le nuove fasi avviate e la caduta di rigide restrizioni e delle autocertificazioni avranno efficacia se saranno vissute con buonsenso e spirito maturo da parte di tutti. Anche i bisogni alimentari saranno soddisfatti nella misura in cui si potrà agire onestamente alla ricerca di risorse adeguate, in un regime di giustizia e non di sperequazione, accontentandosi di quello che si ha e di ciò che si potrebbe avere. «Da dove mi verrà l’aiuto? – si chiede il profeta Davide. «Il mio aiuto viene dal Signore» (Sal 120, 1-2). Una esperienza lontana nel tempo, almeno nove secoli prima della venuta di Cristo vede protagonista Elia, il profeta di fuoco in un tempo di carestia quando chiede un pezzo di pane ad una povera vedova per giunta straniera. Essa ha la morte a portata di mano perché possiede solo pochi grammi di farina e alcune gocce di olio utili per fare una focaccia per lei e suo figlio e poi morire. La donna risponde con generosità alla richiesta dell’uomo di Dio ed il Signore le dona provvidenza bastante sino alla fine della carestia. Dio interviene sempre. Si tratta di accogliere quanto Gesù insegna, di fidarsi di Lui, di lasciarsi purificare nella mente, nel cuore e nel corpo. Ed anche di continuare ad essere generosi con tutti, con Dio e con gli altri. P. Angelo Sardone

Senza l’Eucaristia non c’è vita

Mattutino di speranza
Giovedì 14 maggio 2020.
Nel mistero dell’Eucaristia noi adoriamo Gesù Cristo vivo e vero nel suo corpo, sangue, anima e divinità. Questo mistero di fede richiede attenzione, fiducia, abbandono completo perché va al di là dei sensi e della mente molto limitati nel vedere e nel comprendere. Gesù Sommo sacerdote, che una volta per sempre ha consumato in forma cruenta il suo sacrificio sulla croce, ogni giorno lo rinnova sull’altare per mezzo del sacerdote al quale egli stesso ha dato il potere di rendere presente ed attualizzare il suo mistero d’amore, nella celebrazione della S. Messa. Il cibo eucaristico ha la prerogativa di “soprasostanziale” cioè superiore ad ogni altra sostanza ed il suo uso e la sua utilità sono giornaliere. Senza questo cibo non si può vivere. La necessità dell’Eucaristia giornaliera si configura nella preghiera insegnata da Gesù Cristo con la quale si chiede al Padre il pane quotidiano, perché non c’è un giorno nel quale non vi sia questo bisogno. «Per l’anima, che cosa c’è di più nutritivo del Verbo? Per la mente che la riceve, che cosa di più prezioso della sapienza di Dio?» (Origene). Entrambi i sacramenti, l’Eucaristia ed il Sacerdozio, scaturiscono dal Cuore di Cristo e sono il dono più grande del suo amore. Dall’Eucaristia nasce la Chiesa, l’assemblea di coloro che sono chiamati da Dio. Nel contempo è la Chiesa stessa che, attraverso il sacerdote, confeziona l’Eucaristia che è garanzia della presenza viva di Gesù nel tempo, nella storia. In questi ultimi mesi, per le note ragioni di prudenza onde arginare la contaminazione del virus, è stata interdetta la partecipazione sia personale che comunitaria alla sinassi, cioè alla riunione dei fedeli per la lettura della Parola di Dio e la celebrazione eucaristica. Di conseguenza è mancato, anche a Pasqua, il cibo dell’Eucaristia. La partecipazione alla S. Messa con i mezzi di comunicazione sociale non ha di fatto sostituito, se non virtualmente, la presenza fisica alla celebrazione, ma la bocca e il cuore sono rimasti senza il nutrimento. Né tanto meno la cosiddetta “comunione spirituale”, una pratica devota diffusa soprattutto dai grandi Santi eucaristici come Alfonso Maria de’ Liguori, non ha potuto sostituire se non virtualmente, questa necessità e questo bisogno. Una cosa è desiderare un bene prezioso, un’altra è averlo. Una cosa è pensare un cibo delizioso, un’altra è riceverlo e gustarlo. Il digiuno eucaristico ha fatto crescere il bisogno e l’urgenza di tornare a celebrare insieme la S. Messa e diventare commensali del banchetto per ricevere il corpo e il sangue di Cristo, vero cibo e vera bevanda. L’Eucaristia rafforza, infatti, i vincoli di amore con Gesù, permette di rimanere in Lui che dà la garanzia della vita sia terrena che eterna: «Chi mangia di me, vivrà per me» (Gv 6). Noi sacerdoti, in forza della nostra identità e del servizio sacramentale non siamo stati privati di questo cibo. Il mio pensiero, è stato ed è sempre rivolto a tutti quelli che non hanno potuto e non possono ancora usufruire personalmente di questo dono. Ho pensato a quanto S. Giovanni Paolo II raccontava agli inizi del suo ministero petrino, di una comunità cristiana nella quale, non essendoci un sacerdote disponibile, si riunisce per lodare il Signore ed imita la celebrazione eucaristica, tenendo il Libro della Parola aperto, dispiegando sull’altare il corporale con le offerte del pane e del vino, prega e canta, quasi stesse celebrando la S. Messa. Ma quando si giunge al momento della consacrazione, un grande silenzio avvolge la mente, il cuore e gli ambienti. Si odono singulti di pianto perché non c’è chi pronunzi le parole della consacrazione, renda presente Gesù sull’altare e lo distribuisca a tutti. In questi ultimi mesi è avvenuto il contrario. Noi sacerdoti abbiamo celebrato l’Eucaristia, distribuendo con abbondanza il pane della Parola, ma, con il cuore e la mente angosciati, non abbiamo potuto dare materialmente il Pane della vita a tutti quelli che lo desideravano e che invece dovevano accontentarsi di sentire o guardare quello che avveniva nella Messa o nell’adorazione eucaristica. Le nostre lagrime si sono confuse con le vostre e si sono unite nel sacro calice al sangue di Cristo. Il Signore ha benedetto questo comune dolore, facendo crescere dentro il cuore di ciascuno il desiderio ancora maggiore di tornare a celebrare insieme la S. Messa, ossia tornare a vivere, proprio perché senza l’Eucaristia non c’è salute, non c’è prosperità, non c’è futuro, non c’è vita! P. Angelo Sardone

Sia benedetto Dio

Dio ascolta: è attento alla voce della nostra preghiera. Lui che è Padre, si pone sempre in ascolto dei figli, anche quando questi si allontanano e presi dall’euforia delle proprie capacità e dal desiderio sfrenato di libertà, percorrono strade buie che li portano distanti dal suo cuore e dal suo amore. Dio guarda dal cielo, ode le invocazioni, asciuga le lagrime, fa sentire nel cuore un dolce richiamo ed il nostalgico desiderio della sicurezza della casa e del suo amore, provvede ad ogni necessità. Nel linguaggio comune il termine “preghiera” richiama la domanda, la richiesta, ed implica una relazione. Come insegnano i maestri dello Spirito, essa è un atteggiamento, uno “stare davanti a Dio”, appagarsi della sua presenza, ascoltare la sua voce. La preghiera si dice anche «orazione» un termine che, nella etimologia latina, richiama la bocca ed implica l’azione di parlare, raccontarsi a Lui. In essa si compendiano i sentimenti ed i bisogni dell’uomo, dal lamento, alla supplica, dalla richiesta alla forma più alta dell’abbandono in Lui. S. Giovanni Damasceno evidenzia i due aspetti fondamentali della preghiera: il primo «Elevatio mentis in Deum», elevazione della mente in Dio, cioè meditazione, contemplazione, estasi; il secondo «Petitio decentium a Deo» cioè richiesta a Dio delle cose buone, necessarie per la salvezza eterna. Un altro grande pensatore, S. Bonaventura da Bagnoreggio in una famosa opera del 1259, «Itinerarium mentis in Deum», partendo dalla natura umana e dalla spiritualità propria di ogni essere creato che tende all’elevazione per conoscere ed amare Dio, indica le tappe e le modalità del cammino della preghiera; si parte dalle tracce lasciate dal Creatore nel mondo e dal riflesso della sua immagine nel fondo dell’anima umana, ci si eleva allo stato di estasi fino a raggiungere la contemplazione mistica. A volte senza rendersene conto, nella semplicità della propria vita e nella quotidianità delle proprie azioni, si vivono queste profonde esperienze che collocano l’uomo dentro un flusso di grazia da cui è dominato e avvolto, anche con la viva sensazione di un benessere anche fisico. Tutto questo avviene come esigenza naturale per vivere, rapportandosi alla realtà divina insita nella profondità del cuore dell’uomo. Le definizioni della preghiera e le descrizioni delle sue componenti e degli atteggiamenti sono tantissime e legate alle diverse sensazioni ed esperienze personali e comunitarie. In questi giorni di forzata assenza dalle espressioni comunitarie di preghiera, principalmente la celebrazione della S. Messa, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» (LG 11), tanti hanno sperimentato la necessità della preghiera personale e familiare, riscoprendo la bellezza della preghiera liturgica della Chiesa, la recita del S. Rosario, la pratica delle devozioni e sicuramente hanno ricavato tanti benefici. La connessione alle varie fonti di trasmissione, per usufruire se pure virtualmente della celebrazione eucaristica e delle altre pratiche devote, ha alimentato e soddisfatto il bisogno innato di rivolgersi a Dio, presentare a Lui le necessità giornaliere ed i bisogni della vita, trovare il conforto dell’ascolto e gustare la provvidenza giunta con sorprendente attualità dalla Parola di Dio proclamata nella Liturgia e spezzata nella riflessione omiletica. E questo, mentre è diventato un impegno sistematico, ha riempito fin dal mattino il cuore facendo la differenza da monotone giornate piene di movimenti, preoccupazioni, agitazioni, che talora lasciano nel cuore solo amarezza, sconforto e stanchezza. Oggi diciamo al Signore: «Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia» (Sal 65,20). P. Angelo Sardone