S. Luca, evangelista del Rogate

«Solo Luca è con me» (2 Tim 4,11). L’espressione di S. Paolo, secca ed essenziale, evidenzia lo stato d’animo sconfortato e non certo felice dell’Apostolo. La situazione particolare tratteggiata nello scritto a Timoteo, riporta dolorosi avvenimenti che lo vedono abbandonato da Dema, vittima di danni da parte del fabbro Alessandro, solo ed abbandonato nel tribunale senza assistenza alcuna. Solo Luca, suo compagno nei viaggi missionari, é con lui. Questa presenza è di grande conforto, lui che sarà l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli, l’evangelista della misericordia, della compassione, dei vangeli dell’infanzia di Cristo, dei poveri. Il suo, detto anche «vangelo sociale», fu scritto più per i Greci che per i Giudei. Ha una caratteristica universale: predilige alcuni temi storici e teologici che si troveranno in concordia con il prezioso ed importante libro della Chiesa degli Atti di alcuni apostoli, massimamente di Paolo. Nativo di Antiochia di Siria sarebbe morto all’età di 84 anni a Tebe. In particolare nella Tradizione rogazionista, l’evangelista Luca occupa un posto particolare per aver riportato, insieme con S. Matteo, la pericope della preghiera per le vocazioni, il Rogate. S. Annibale M. Di Francia rileva nella narrazione lucana un tratto significativo e suo proprio che evidenzia la ripetitività dello stesso. Mentre Matteo in analoga pericope adopera il termine «dixit», cioè disse, Luca usa «dicebat» cioè diceva, andava dicendo, ad indicare quasi che si trattava di una ingiunzione ripetuta più volte, «il che dimostra la ripetizione e l’insistenza con cui inculcava questa divina preghiera» (S. Annibale Di Francia). Auguri a tutti coloro che ne hanno questo nome, perché possano essere come S. Luca, portatori di Cristo e del suo vangelo di salvezza. P. Angelo Sardone

Ignazio, infuocato di Cristo

«Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rom 1,16). L’incarico ricevuto direttamente da Cristo di proclamare il Vangelo, rese Paolo fermo nelle sue profonde affermazioni di fede, convinto e coraggioso testimone delle verità pronunziate dal Maestro, che sono via al cielo. Il suo impegno lo rese intrepido dinanzi alle numerose difficoltà di relazioni e rapporti con i suoi conterranei che non capivano il senso della sua risoluzione di vita, fino a subire accuse, condanne ed appellarsi a Cesare andando a Roma. Una sorte quasi analoga l’ebbe nel II secolo uno dei martiri più illustri, S. Ignazio, vescovo di Antiochia, la città più nota e popolosa della Siria. Lo scanno episcopale che fu per primo di Pietro apostolo, lo rese inviso ai romani dominatori che lo inviarono a Roma perché fosse sbranato dalle belve nel corso delle feste imperiali. Ignazio, il cui nome significa «fuoco, infuocato», non si sottrasse alla condanna, anzi rese produttivo il suo viaggio perché nel corso della navigazione e delle soste, scrisse sette lettere ai cristiani di allora appartenenti alle diverse Chiese, compresa quella di Roma. Si tratta di un prezioso tesoro di teologia e pastorale che, a partire dalla potenza del Vangelo, dichiara ed esplicita le verità evangeliche affidandole alla Chiesa primitiva che muoveva i suoi passi in diversi ambienti già irrorati e fortificati dal sangue di numerosi martiri. Nelle lettere si dichiara «Teoforo», cioè portatore di Dio. Il suo coraggio e la sua testimonianza è ancora oggi seme fruttifero per nuovi cristiani nel coraggio e nel l’impegno della divulgazione del Vangelo anche a costo della vita. P. Angelo Sardone

Lettera ai Romani

«A tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!» (Rm 1,7). Termina così l’indirizzo di saluto che apre la corposa lettera che S. Paolo scrive agli abitanti di Roma. Seguendo lo schema classico che si usava nel suo tempo, l‘Apostolo, con una forma nuova e cristiana, si rivolge ai suoi destinatari evidenziando il mittente, formulando una sintesi teologica dello scritto ed indicando i destinatari. Benché non sia stato parte integrante del collegio dei dodici chiamati ed inviati da Cristo, Paolo nella tradizione cristiana diventerà l’apostolo per eccellenza per la sua eccezionale personalità e la consistenza numerica e qualitativa delle sue lettere. La lettera ai Romani fu scritta da Corinto nell’inverno del 57-58, quando Paolo stava per partire per Gerusalemme e di là seguitare per Roma e la Spagna. Non aveva lui fondato la comunità cristiana dell’Urbe ma la conosceva attraverso i coniugi Aquila e Priscilla che si erano accompagnati a lui, come una comunità di convertiti dal paganesimo e dal giudaismo. A Roma gli ebrei erano presenti sin dal 161 a.C. come mercanti e schiavi liberati. Nell’epoca imperiale la comunità ebraica divenne importantissima perché tanti che facevano riferimento ad almeno dodici sinagoghe, avevano cariche sociali e istituzionali, quali insegnanti e rabbini, artigiani e mercanti, uomini di cultura. «Amati da Dio e santi per chiamata di Dio», sono gli epiteti iniziali che l’apostolo riserva ai primi cristiani di Roma ai quali rivolge un saluto di pace sostenuto dalla grazia da parte di Dio Padre e del Figlio Gesù. P. Angelo Sardone

Il giorno del Signore

«Viene il giorno del Signore, perché è vicino, giorno di tenebra e di oscurità, giorno di nube e di caligine» (Gl 2,1-2). Il tema escatologico del giorno del Signore annunziato dal profeta Malachia, viene integrato dalle indicazioni altrettanto incisive del profeta Gioele uno degli ultimi esponenti della corrente profetica. Il suo libro, di appena 4 capitoli, ha un sentore propriamente liturgico, tanto da essere molto presente nelle attuali liturgie quaresimali. Dal flagello delle cavallette che invadono e distruggono tutto, come fosse un grande esercito, si passa all’enunciazione del «giorno del Signore», un’era nuova che prevede l’effusione dello Spirito. La liturgia di lutto e di supplica si sviluppa con un lamento di desolazione sul paese e l’invito ad un cambiamento radicale in vista del giorno del Signore, dal quale si può essere liberati solo con la penitenza e la preghiera. Gli elementi simbolici presentati non sono esclusivamente quaresimali ma abbracciano la vita di ogni giorno. Cilicio, pianto, vestito di sacco, digiuno, riunione sacra sono tutte primitive componenti di culto che hanno trovato spazio ed utilizzazione nella liturgia della Chiesa. Il giorno del Signore viene presentato come un giorno di allarme e devastazione, di tenebra ed oscurità, che incute terrore. Quando verrà nessuno lo sa. Gli eventi storici passati devono essere di insegnamento Occorre comunque essere sempre pronti, sapendo leggere i segni dei tempi che, in questi ultimi giorni, sono paurosi e lasciano senza parole. Nella prospettiva biblica e speriamo anche la nostra attuale, deve esserci
un popolo grande e forte. P. Angelo Sardone

La vigna del Signore, ieri ed oggi

«La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita» (Is 5,6). Il capitolo V del libro del primo Isaia, si caratterizza come «canto per la vigna», una composizione poetica con risvolti storici e teologici di grande valore. Spesso la letteratura profetica ha simili espressioni. Il linguaggio metaforico adoperato, richiama la realtà storica del popolo di Israele rappresentato come una vigna di viti pregiate, una piantagione preferita posseduta da un padrone, Dio, dissodata, sgombra di sassi. Tutto era pronto per la raccolta, compreso un tino, il risultato però non fu l’uva ma acini acerbi. Perplesso dinanzi a questa delusione il padrone interroga gli abitanti di Gerusalemme sul da farsi e conclude col proposito di eliminare la siepe protettiva, demolire il muro di cinta e renderla pascolo, oggetto di calpestìo, fino a diventare un deserto ricco di rovi e pruni, senza pioggia alcuna. Alla giustizia fa eco lo spargimento di sangue, alla rettitudine, le grida degli oppressi. Un canto desolato, quasi un lamento vuole richiamare la coscienza del popolo, la vera ed eletta vigna, trattata con ogni attenzione e dotata di ogni privilegio protettivo, ma manifestatasi ingrata, repellente al volere di Dio e facile preda delle malattie che la rendono infruttuosa. La storia si ripete ogni volta che alle attenzioni di Dio, frutto di amore e di predilezione, corrisponde da parte degli uomini indifferenza, insubordinazione e rifiuto. I frutti acerbi e grami sono il risultato di questo obbrobrio, conseguenza ineluttabile del parossismo egoistico e superbo di chi pensa di poter fare a meno di Dio, della sua potenza, della sua premura paterna. P. Angelo Sardone

Teresina del Bambino Gesù

«Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore». È questo il programma di vita di una giovane santa moderna, Teresina del Bambino Gesù (1873-1897), carmelitana scalza, la cui memoria odierna è omessa per via della domenica. Il suo programma di vita e la sua vocazione è tutta qui. Affascinata dall’amore del Signore sin dai primi anni della sua vita, decide di seguire Gesù suo sposo nel Carmelo di Lisieux e fare della sua vita una offerta totale a Dio sommamente amato. L’inserimento nella vita comunitaria non manifesta nulla di eccezionale, semplicemente la fedeltà alla regola e la pratica gioiosa della vita di preghiera e di lavoro, tipica della vita claustrale. La sua notorietà ed eroicità di virtù si manifesta dopo la morte avvenuta ad appena 24 anni. Era considerata una religiosa non particolarmente eccezionale. La meditazione profonda della Parola di Dio e la ricerca costante del senso pieno da dare alla sua giovane vita ritirata dalla luce e dai frastuoni mondani, la induce a ricercare nella profondità del suo cuore e nel discernimento dei testi sacri, la sua vocazione nella vocazione. Dinanzi alle aridità del mondo, simili alla grande valle di ossa aride evocata dal profeta Ezechiele, Teresina si erge come nuova profetessa, invoca dal Signore la vita per i morti della distesa umana, invoca lo Spirito perché possano rivivere ed identifica il suo ruolo come colei che pratica l’amore. Questo sentimento profondo rompe le sbarre dell’austera clausura e varca i confini del mondo per giungere ovunque. Scopre la sua vocazione ecclesiale, semplice e nello stesso tempo responsabile: essere l’amore. La Chiesa la onora col riconoscimento duplice di dottore della Chiesa e patrona delle missioni. La profondità del suo pensiero nella sua autobiografia e l’ansia di salvezza dell’intero popolo di Dio, costituiscono le basi fondamentali di fede e di amore che le fanno comprendere l’importanza e la necessità del cuore del Vangelo, l’amore. Comincia oggi il mese missionario illuminato da questa grande testimonianza, eccezionale nella sua semplicità, essenziale nel suo valore e nell’eredità del suo messaggio. P. Angelo Sardone

Riflettere sul comportamento

«Riflettete bene sul vostro comportamento! Avete seminato molto, ma avete raccolto poco» (Ag 1,6). Aggeo è un profeta non molto conosciuto. Pur appartenendo al gruppo dei profeti minori a causa dell’esiguità del suo testo scritto, 2 capitoletti appena, acquista una certa importanza perché si colloca in Palestina subito dopo il ritorno degli Ebrei a Gerusalemme. La sua predicazione coincide con la ricostruzione del tempio, ostacolata soprattutto dal facile scoraggiamento degli esiliati. Quattro piccoli discorsi costituiscono il testo biblico e fanno riferimento ad alcune parole chiave: si passa dalla punizione, tipica del periodo esiliato, alla consolazione data da Dio nel ripristino della storia di Israele, fino alla restaurazione esigita dalla nuova condizione di vita e dalla ripartenza della storia nel luogo più sacro, Gerusalemme. Per ben due volte la Parola di Dio sentenzia: «riflettete bene sul vostro comportamento» e cita le conseguenze di una forma di assopimento con la presentazione cruda delle situazioni: lavorare tanto e raccogliere poco, mangiare e non saziarsi, vestirsi e non coprirsi. La ragione fondamentale è perché ciascuno, anche nella paura, si è dedicato alle cose proprie, non pensando di ricostruire il tempio e restaurare ogni cosa. Sembra storia di oggi, quando anche tra i cristiani prevale facilmente il proprio interesse pur essendo venuti fuori da un tempo terribile come quello pandemico, correndo il rischio di vedere tutto vanificato. La tentazione della chiusura, della mancanza di speranza non deve impedire la ripresa con la pratica sistematica della vita cristiana sorretta dalla dimensione sacramentale, dalla partecipazione alla Messa domenicale e dalla confessione periodica! P. Angelo Sardone

Il santo dei poveri

«Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù» (Esd 9,8). Nella seconda parte del libro di Esdra è narrata l’organizzazione della comunità giudaica a Gerusalemme da parte del sacerdote Esdra, esperto nei comandi del Signore e di Neemia quasi un governatore della Giudea. Riprende vita la città santa, purificata dagli abomini e sollevata dalla schiavitù babilonese da Dio stesso attraverso i nuovi eventi. Nella storia si ripetono avvenimenti analoghi legati non solo alla schiavitù fisica ma anche e soprattutto tutto a quella morale che rende gli uomini preda dell’ignoranza, del peccato e della sopraffazione dei forti. Nel secolo XVI il Signore suscitò in Francia uno dei più grandi esempi di carità e di servizio appassionato ai poveri, S. Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), insigne apostolo dei bassifondi di Parigi, con la passione dell’evangelizzazione. Comincio dalle popolazioni rurali per finire poi nelle galere e nel servizio dei poveri, ammalati e sofferenti. La sua caratteristica fu la difesa dei diritti dei poveri e degli umili nei confronti dei potenti. La sua testimonianza fece breccia nel cuore di sacerdoti e laici, uomini e donne che lo seguirono e con i quali diede inizio alla Congregazione dei «Preti della missione», più noti come Lazzaristi, che si dedicano al servizio della carità verso gli ultimi della società che egli riteneva «duchi e marchesi». A Lui si ispirò nel suo apostolato carismatico S. Annibale M. Di Francia che intraprese il suo lavoro di redenzione dei piccoli e dei poveri nel malfamato Quartiere Avignone a Messina, luogo degradato ed inviso ai potenti. Anche lui considerava i poveri marchesi, principi e baroni e non lesinava attenzione e servizi anche eroici. P. Angelo Sardone

S. Pio da Pietrelcina

«Davanti a Dio e a Gesù Cristo, ti ordino di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo» (1Tim 6,13). In questo tratto, il più accorato della lettera, S. Paolo esorta Timoteo a tenere a bada la fede propagata dai falsi dottori, agendo con energia per conservare il comandamento ed il diritto della verità. Queste indicazioni sono state fatte proprie da S. Pio da Pietrelcina (1887-1968), del quale oggi si celebra la memoria. Figlio di contadini, nella nuova famiglia dei Frati Minori Cappuccini diviene sacerdote il 10 agosto 1910. Dotato di una salute precaria, dal 1916 dimora ininterrottamente nel piccolo paese di San Giovanni Rotondo sul Gargano dove rimane fino alla morte, visitato, il 1918, da Dio col dono-privilegio delle stimmate. Portandole addosso con grande sofferenza fisica svolge un apostolato straordinario di amministrazione della grazia sacramentale di Dio e di accoglienza di tantissime persone che accorrono a lui da ogni parte del mondo. La sua clientela è universale come la sua popolarità. Ha un occhio particolare per gli ammalati per i quali costruisce la Casa Sollievo della sofferenza. Nonostante possa sembrare ruvido, è dolce e penetrante nella sua azione apostolica e sacramentale verso tante anime che sistematicamente diventano figli e figlie spirituali. Ad essi indirizza le sue lettere, un vero e proprio itinerario formativo e di santificazione. Tenuto sotto controllo dalle autorità ecclesiastiche, vittima di severe ispezioni, impedito per un po’ di tempo finanche dalla celebrazione della Messa in pubblico, con umiltà ed obbedienza accoglie tutto, soffre ed offre. La sua santità lo rende tutt’oggi invocato e venerato in ogni parte del mondo. Auguri vivissimi a quanti ne portano il nome o s’ispirano a Lui. P. Angelo Sardone

La priorità dei poveri

«Quelli che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione» (1Tim 6,9). La seconda parte della prima lettera a Timoteo contiene raccomandazioni pratiche che fanno riferimento a categorie diverse di persone: le vedove, i presbiteri, gli schiavi i falsi dottori. Soprattutto verso questi ultimi Paolo adopera una sottile ironia soprattutto quando affronta l’argomento della pietà che, dice, è utile a tutto ed è un grande guadagno spirituale. Esso è tale, quando non vi si specula sopra e ci si sa accontentare di ciò che è indispensabile per vivere. Si tratta di realtà molto comuni a quel tempo, di fronte al pericolo della ricchezza, divenute come massime, saggiamente riportate dall’Apostolo, così come rilevate dalla sapienza dell’Antico Testamento. E ciò vale in tutti i campi, da quello propriamente sociale ed economico a quello spirituale e religioso. Il denaro e la ricchezza traggono facilmente in tentazione perché l’uomo, per la natura contaminata dal peccato, è incontentabile, desidera sempre più ed a tutti i costi. Questo modo di essere e di fare, determina rovina e perdizione che sono frutto talora di desideri insensati ed oltremodo dannosi. La realtà della vita di ogni giorno fa fare i conti con queste situazioni per niente insolite che vedono anche buoni cristiani di tutti i ceti, vittime incaute della ingordigia del possesso e del dominio. Il Signore Gesù ha offerto come antidoto la scelta preferenziale della povertà che non soltanto rende liberi, ma dà la garanzia del possesso del regno dei cieli. P. Angelo Sardone