Autore: Angelo Sardone
Il Figlio dell’uomo
«Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo. Gli furono dati potere, gloria e regno» (Dn 7,13-14). Le visioni notturne del profeta Daniele hanno un risvolto apocalittico. Immagini e termini adoperati nella loro spiegazione, hanno grande affinità con quelli dell’Apocalisse di S. Giovanni apostolo. La liturgia della Parola che caratterizza l’ultima settimana del Tempo Ordinario prima dell’inizio del nuovo anno liturgico, utilizza questi testi provocando una riflessione profonda sulle realtà escatologiche.La prima visione si caratterizza come «visione delle quattro bestie», quasi in analogia al sogno di Nabucodonosor ed ai quattro metalli di cui era composta la statua. Il leone rappresenta il regno babilonese; l’orso, quello dei Medi; il leopardo, il regno persiano, e la quarta bestia, diversa da tutte le altre, spaventosa, terribile con una forza eccezionale, l’Impero di Alessandro e dei suoi successori. Questi regni perdono il potere dinanzi a quello maestoso del Figlio dell’uomo che giunge sulle nubi ed al quale sono concessi il potere, la gloria ed il regno che non sarà mai distrutto. Il termine «figlio dell’uomo», designa un uomo che misteriosamente supera la condizione umana, come spiegato dagli esegeti e come riportato nelle interpretazioni dei rabbini e nell’applicazione che Gesù fa a se stesso, come titolo messianico. Gesù ha condiviso in tutto la condizione umana anche nella sua precarietà. Una dimostrazione chiara verrà nel mistero della sua nascita in terra e poi della sua morte redentiva. Questi concetti, per quanto alti e difficili da interpretare, preannunziano l’evento della venuta di Cristo. P. Angelo Sardone
Sant’Andrea, primo animatore vocazionale
«La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Questa affermazione di S. Paolo è diventata un classico nella catechesi: dall’ascolto della Parola di Cristo viene la fede. L’importanza dell’ascolto è indiscussa perché permette di cogliere con attenzione, meditare nel profondo e poi tradurre nella vita quanto è comunicato. Nell’intera sua vita l’Apostolo Andrea, di cui oggi si celebra la festa liturgica, è stato un attento ascoltatore, prima di Giovanni Battista di cui era discepolo e poi di Gesù. Accolse senza riserve l’indicazione che il rude maestro del Giordano che amministrava il Battesimo diede a lui ed all’altro che era con lui. L’attenzione e la fiducia «nell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo», lo spinse a comunicare immediatamente a suo fratello Simone la straordinarietà dell’incontro e della persona di Gesù di Nazaret. Entrambi poi, secondo la versione evangelica di Matteo e Marco, furono chiamati direttamente da Gesù mentre, lungo le sponde del lago di Gennesaret, gettavano le reti in mare. La sua collocazione all’interno del collegio apostolico lo pone sempre in atteggiamento interlocutorio ed attento. Indica infatti il fanciullo in possesso dei cinque pani e dei due pesci coi quali Gesù realizza la moltiplicazione; insieme con Filippo col quale condivide l’etimologia greca del nome, comunica che alcuni Greci vogliono conoscere Gesù. La crescita ulteriore nella fede avverrà dopo la morte e la risurrezione di Cristo, quando, secondo la tradizione si diede alla predicazione in Asia Minore e nella Russia meridionale e meritò il martirio, crocifisso su una croce particolare ad X che prende da lui il nome di «croce di Sant’Andrea». Auguri a tutti coloro che ne portano il nome perché siano ascoltatori attenti e comunicatori efficaci della Parola di Dio. P. Angelo Sardone
Il sogno premonitore
«Questo è il sogno: ora ne daremo la spiegazione al re» (Dan 2,36). Così rispose al re Nabucodonosor, Daniele, da lui interpellato per interpretare il sogno che lo aveva tanto agitato e reso insonne. Gli indovini ed i maghi della corte non erano riusciti a dare alcuna spiegazione, anzi proprio per questo erano stati condannati a morte. Il saggio Daniele venuto a conoscenza di ciò implorò di non ucciderli e si propose a dare risposte al re dopo aver invocato il Signore che gli rivelò il pieno significato. Si tratta del celebre sogno della grande statua umana, enorme e splendente con le varie parti del corpo composte da materiale diverso: la testa d’oro, le braccia ed il petto di argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro ed i piedi in parte di ferro ed in parte di creta. È la prima delle allegorie di Daniele che descrive la successione degli imperi, babilonese, persiano, medo e greco, in forma decrescente adoperando l’immagine dei metalli secondo le età del mondo. I regni crolleranno all’avvento del regno messianico fondato su Dio, per la pietra misteriosamente staccata dal monte. Dinanzi alla puntuale spiegazione il re si piegò con la faccia a terra esaltando Dio come signore dei signori e dio degli dei e si prostrò davanti a Daniele costituendolo governatore della provincia babilonese. L’intelligenza e la sapienza che vengono da Dio, premiano la fedeltà e l’impegno perseverante nel bene, rendendo profeti coloro che si sottomettono a Lui e diventano interlocutori ricercati e strumenti risolutori di problemi e situazioni storiche ed umane. P. Angelo Sardone
Daniele: alla corte di Nabucodonosor
«Dio concesse a questi quattro giovani di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e di sogni» (Dn 1,17). Daniele è uno dei quattro profeti scrittori maggiori, detti tali per la consistenza del libro loro attribuito. La sua vicenda si svolge a Babilonia alla corte dei re Nabucodonosor lo stesso che aveva saccheggiato Gerusalemme e condotto schiavi gli ebrei, Baldassarre e Dario il Medo. È tra i quattro giovani di nobile famiglia ebrea, «senza difetti, di bell’aspetto, dotati di sapienza, intelligenti ed istruiti», fatti scegliere dal re per essere addestrati per tre anni nella cultura caldea, lingua e scrittura ed entrare poi al suo servizio. Dovevano essere trattati con grande dignità e rispetto, godendo delle vivande prelibate della sua mensa. Si chiamavano Daniele, Anania, Azaria e Misaele. I giovani non volevano affatto contaminarsi con le vivande regali contenenti prodotti che mai un ebreo avrebbe mangiato per cui, trovando il favore del sovrintendente, furono cibati di verdura ed acqua. Il Signore che vegliava anche su questa decisione permise che i quattro, terminato il tempo della prova, fossero trovati sani alla pari degli altri, e furono ritenuti dieci volte superiori a tutti gli altri giovani presentati per essere ammessi al servizio del re. Daniele poi era superiore a tutti per sapienza. La fedeltà agli impegni di fede non è negoziabile con qualsiasi altra allettante proposta. Nel mondo attuale, nel quale facilmente si cede a qualsiasi altra forma di adesione e di comportamenti allettanti e leggeri, la testimonianza dei giovani ebrei diviene un solido insegnamento di coerenza, perché la fiducia nel Signore fa vedere strepitosi miracoli. P. Angelo Sardone
Antioco IV Epifane: la resa dei conti
«Ricordo i mali che ho fatto a Gerusalemme e mandando a sopprimere gli abitanti di Giuda senza ragione» (1Mac 6,12). Il primo Libro dei Maccabei racconta le gesta nefaste del re Antioco Epifane e colloca nel capitolo sesto la sua fine. La trattazione storica a volte corre di pari passo, ma molto più sobria, con la storia di Polibio, antico storico greco. Certamente gli intenti biblici sono diversi da quelli meramente storici. Il re si è distinto nelle sue opere che verso i Giudei sono risultate malvagie ed irriguardose nei confronti del tempio e dello scempio ivi realizzato col trafugamento degli oggetti sacri. Le ultime disavventure belliche, tutte a suo sfavore, lo fanno cadere ammalato e si mette a letto. Oppressione, dispiaceri, tribolazione ed agitazione sono i sentimenti nei quali versa, puntualmente annotati dall’autore. In questo stato di cose e nel tumulto dei pensieri e delle emozioni, dinanzi ai suoi amici fa una sorta di resoconto delle sue azioni, annoverando tra queste il ricordo dei mali commessi a Gerusalemme, con l’asportazione degli arredi d’oro e d’argento che vi si trovavano e la soppressione degli abitanti di Giuda senza alcuna ragione. La presa di coscienza delle cose orribili da lui compiute gli apre la mente alla consapevolezza che i mali presenti che lo colpiscono, sono la naturale conseguenza. Finito in terra straniera, a Babilonia, lì muore nella più profonda tristezza. I sentimenti di pentimento, anche se giunti alla fine della vita, sono salutari. Questo quadro biblico-storico è la conclusione di una vicenda umana alla quale si può applicare l’antico adagio: «Sic transit gloria mundi! Così passa la gloria del mondo!». P. Angelo Sardone
Coraggiosi ed invitti martiri
«Grandissima fu la gioia del popolo, perché era stata cancellata l’onta dei pagani» (1Mac 4,58). Sconfitti i nemici, Giuda Maccabeo ed i suoi fratelli pensarono bene di cancellare tutta l’onta subita a cominciare dal luogo sacro sul monte Sion. Costruirono un nuovo altare e consumarono sacrifici adornando con ghirlande il portale. La festa della nuova dedicazione durò otto giorni tra canti e suoni di cetra. Grande fu la gioia per questo avvenimento. Altrettanto grande è tuttora la gioia della Chiesa nella memoria odierna dei 117 martiri vietnamiti, tra cui otto vescovi, 50 sacerdoti e 59 laici di cui una sola donna, madre di famiglia, di tutte le condizioni sociali, uccisi per amore di Cristo per non aver voluto abiurare la fede. Questi martiri furono unificati in un solo gruppo nella canonizzazione operata da S. Giovanni Paolo II. Lo stesso papa dal 1990 li dichiarò patroni del Vietnam. Una delle figure eminenti è Andrea Dung-Lac, catechista prima e poi sacerdote, molto popolare per il culto attribuitogli, predicatore instancabile e missionario. Salvato dalla prigione più volte, desiderava il martirio che gli fu comminato con la decapitazione ad Hanoi il 21 dicembre 1839. Questi martiri proclamarono la verità e l’universalità della fede in Dio, contro le disposizioni imposte dalle autorità in riferimento alla pratica della fede, senza rifiutare la tradizione culturale e le istituzioni legali del paese asiatico. La testimonianza cruenta col versamento del sangue rimane un sigillo indelebile della fede proclamata e professata eroicamente a tutela della verità di Dio e della potenza della sua grazia. P. Angelo Sardone