I santi ARCANGELI

«Benedite il Signore, voi tutti suoi Angeli, potenti esecutori dei suoi comandi, pronti al suono della sua parola» (Sal 102,20). Così l’antifona della Messa propria, introduce la festa dei santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele che oggi, domenica, cede il passo alla «Pasqua della settimana». I loro nomi sono «teoforici» perché contengono nella radice ebraica il nome di Dio, «El»: Michele, vuol dire «Chi è come Dio?»; Gabriele «forza di Dio, Raffaele, «medicina di Dio». Sono detti arcangeli perché, al dire di S. Gregorio Magno, sono angeli «che annunciano cose di grande importanza». I diversi riferimenti biblici attestano la loro missione. Michele, riportato nel libro di Daniele (10,13; 12,1) è in lotta contro Satana (Gd 9) e combatte il drago ed i suoi angeli (Apc 12,7). Gabriele è «colui che sta al cospetto di Dio» (Lc 1,19), porta il suo annunzio a Zaccaria ed a Maria per la nascita del Battista e di Gesù Cristo (Lc 1,5-22;26-38). Raffaele, è menzionato nel libro di Tobia, accompagnatore di viaggio del giovane Tobia per portare la guarigione al vecchio suo padre, Tobi, cieco. S. Annibale Di Francia nutriva una grande devozione per loro, soprattutto per l’arcangelo Michele che onorava come Principe dell’Angelica Milizia, altissimo Zelatore del divino Onore e citava in tante preghiere. Lo volle Patrono speciale dell’intera Opera rogazionista per custodirla e proteggerla. In ogni singola Casa volle fosse presente e venerata una sua statua. Il 30 settembre 1910, fu pellegrino a Monte S. Angelo (Fg) e presentò all’Arcangelo una supplica per i bisogni delle Case. P. Angelo Sardone

I santi Medici

«Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli» (Sal 115, 15). Così la Chiesa esalta il sacrificio cruento dei martiri, testimoni qualificati dell’amore del Signore e fedeli a Lui fino all’effusione del sangue. La memoria liturgica odierna, seppure facoltativa dei santi martiri Cosma e Damiano (Arabia 260–Ciro 303), molto popolari sia in Occidente che in Oriente e probabilmente medici, esalta la grandezza di Dio che concede virtù e grazie spirituali e materiali. La data della celebrazione è legata all’anniversario della chiesa eretta a Roma in loro onore da papa Felice IV (525-530). Erano gemelli e fratelli maggiori dei santi Antimo, Leonzio ed Euprepio, meno noti ed anch’essi ritenuti medici. La secolare tradizione li colloca nella prima generazione di martiri sotto Diocleziano forse nel 303. Sono scarse le notizie biografiche: erano dediti alla cura dei malati avendo appreso in Siria l’arte medica, ma erano medici speciali, non si facevano pagare. Per questo sono detti «anàrgiri» (che significa «senza argento», «senza denaro»). Era così messo in pratica il monito di Asclepio: «Darete delle cure gratuitamente, se c’è da soccorrere un povero o uno straniero, perché dove c’è l’amore degli uomini c’è l’amore dell’arte». La loro missione ed il loro compito apostolico fece guadagnare loro il martirio, mentre il Signore «sosteneva il loro animo, guidava la loro lingua, sconfiggeva, per mezzo loro il demonio sulla terra» (S. Agostino). Furono infatti lapidati, fustigati, crocifissi, gettati in mare in un sacco con un macigno appeso al collo ed infine decapitati con i loro tre fratelli più giovani. Auguri a tutti coloro che ne portano il nome, perché testimonino nella società di oggi la bellezza della donazione gratuita di se stessi nel compiere il bene. P. Angelo Sardone

Il santo con la “clientela universale”

«Il Signore benedice la dimora dei giusti. Dei beffardi egli si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza» (Pr 3,34). Il Libro dei Proverbi, il più tipico della letteratura sapienziale, con 31 capitoli, viene attribuito al grande re Salomone. Nell’indicare le modalità di acquisto della sapienza, sono fatte note le gioie del saggio che è beato se ha trovato la sapienza: ha lunghi giorni da vivere e cammina sicuro per la sua strada. Il testo liturgico odierno si adatta bene alla memoria di S. Pio da Pietrelcina (1887-1968) uno dei santi più noti e venerati al mondo. La sua «clientela», disse S. Paolo VI «è universale», non perchè fosse un filosofo o un sapiente, ma perché «diceva la Messa umilmente, confessava dal mattino alla sera». Frate cappuccino, dal 20 settembre 1918, per cinquant’anni portò impresse su mani, piedi e costato le stimmate di Gesù esercitando il suo ministero sacerdotale soprattutto nell’esercizio giornaliero della riconciliazione per la quale era grandemente ricercato. Il suo nome è legato a S. Giovanni Rotondo, nel Gargano, dove visse gran parte della sua vita, prediligendo in particolare gli ammalati nello spirito che curava con la grazia ed anche quelli nel corpo per i quali promosse la realizzazione di Casa sollievo della sofferenza, un ospedale tuttora molto efficiente ed all’avanguardia. La grandezza della sua santità è dentro la sua preghiera assidua, la fedeltà ed obbedienza alla Chiesa, l’umiltà e la costanza perseverante del suo impegno sacerdotale e religioso. I gruppi di preghiera che portano il suo nome, sono «come piccole api spirituali, che portano nel loro alveare miele e cera, dolcezza e pace, concordia, umiltà e pietà». È l’autentica santità, come la sua, che salva il mondo. P. Angelo Sardone

Il mistero della croce

«Per mezzo della croce siamo stati salvati e liberati» (Gal 6,14)». La Chiesa celebra oggi la festa dell’Esaltazione della croce. I riferimenti liturgici evocativi dal Libro dei Numeri col serpente di bronzo che dava vita a coloro che, morsi dai serpenti brucianti lo guardavano, ripreso da Gesù nel dialogo con Nicodemo, attribuendo alla sua persona il segno vero della croce portatrice di salvezza, come anche il bellissimo inno cristologico della lettera ai Filippesi, sono importanti per comprendere il significato di questa celebrazione aldilà dei validi elementi storici. La dedicazione delle basiliche edificate dall’imperatore Costantino il 335 a Gerusalemme sul luogo del Golgota e del S. Sepolcro, dopo aver rinvenuto le reliquie della croce di Cristo, diedero origine alla festa. La croce era ritenuta il più terribile dei supplizi comminati ai responsabili dei più turpi delitti. Consisteva nel «patibulum», il braccio trasversale che il condannato portava sulle spalle fino al luogo del supplizio ed un palo verticale infisso a terra. Ad essa fu affisso Gesù e da allora è diventata l’albero della vita, talamo, trono ed altare, segno della sua signoria sul mondo e del Figlio dell’uomo che comparirà con lei alla fine dei tempi. La predicazione degli apostoli si è mossa nella presentazione della stoltezza della croce; il sacramento del battesimo configura i cristiani a partire dalla croce, morte e risurrezione. Il segno della croce è il segno più semplice e ripetuto di fede: con esso si rievoca il mistero della santissima Trinità, e della morte di Cristo dal cui costato aperto è nata la Chiesa e donato lo Spirito Santo. S. Annibale M. Di Francia riteneva la croce il «libro nel quale possono leggere ed imparare i dotti e gl’ignoranti, i grandi e i piccoli, i giusti e i peccatori, dal quale apprendere la più sublime teologia degli attributi di Dio; il libro nel quale a caratteri di sangue, sta scritto e spiegato il mistero dell’amore eterno di un Dio verso gli uomini, scuola di formazione dei più grandi santi della Chiesa». P. Angelo Sardone

S. Tommaso l’incredulo

«Gli rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Si può sintetizzare in questa mirabile espressione di fede, la testimonianza dell’apostolo S. Tommaso di cui oggi si celebra la festa. Era detto «didimo», cioè «gemello». L’evangelista Giovanni gli dà un significativo rilievo nel suo vangelo: esorta i Dodici a seguire Gesù per andare a morire con Lui in Giudea; chiede a Gesù quale sia la «via» per seguirlo; ed altro. Notevole importanza è stata sempre data alla cosiddetta sua «incredulità» dinanzi al mistero della risurrezione di Cristo raccontato dagli Apostoli, dalla quale potrebbe trasparire una tiepidezza della sua fede. Era scettico in quella circostanza e per credere aveva bisogno di vedere e mettere le mani. L’arte l’ha sempre consacrato nell’atto di mettere il dito nella piaga del costato di Cristo. «È uno che non si accontenta e cerca, intende verificare di persona, compiere una propria esperienza personale» (Papa Francesco). Non si sa dove sia nato né tanto meno dove sia morto, anche se la tradizione parla della sua evangelizzazione in Siria, Persia ed in India. L’espressione più grande della sua fede e della fede di chiunque si avvicina a Cristo è proprio quel «Signore mio e Dio mio»: in essa vi è tutta la resa da parte sua dinanzi alla giusta comprensione del mistero e nello stesso tempo l’adesione totale al Cristo, signore e Dio. I dubbi della fede sono comuni a tutti, grandi e piccoli, colti ed ignoranti. Sono comuni anche ai cristiani nonostante il cammino formativo e sacramentale. La fede, come testimonia l’apostolo è l’abbandono maturo e fiducioso a Dio nonostante il limite umano della difficoltà di comprensione. Solo così si può meritare di essere parte integrante della beatitudine di Gesù che riguarda «coloro che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Auguri a tutti coloro che ne portano il nome e come Lui, passano dalla incredulità alla fede certa e matura. P. Angelo Sardone