«Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,15). La tradizione biblica è concorde nell’affermare che Dio ha rivelato il suo nome a Mosè. Il popolo di Israele mentre accoglie la guida carismatica di Mosè, accoglie il Dio che era stato adorato dai Padri nella terra di Canaan, da Abramo a Giacobbe, a Giuseppe ed i suoi fratelli. La Tradizione ricordava che il nome proprio di Dio già nella Genesi era “El Saddai” cioè onnipotente, o ancor meglio secondo la lingua accadica, “Dio della steppa” (Gen 17,1). Secondo la concezione ebraica il nome non serve solo per designare un essere, ma per rivelarne anche la natura. In questo racconto si tocca uno dei vertici dell’Antico Testamento sia in riferimento alla etimologia del nome che alla teologia. Il termine si spiega innanzitutto con la radice del verbo essere, o meglio, come affermano gli studiosi più accreditati, “colui che fa essere, che porta all’esistenza”. Rivelando se stesso Dio si definisce in prima persona: «Io sono Colui che sono!», o meglio «Io sono Colui che è!». Dio non rivela il suo nome ma, secondo la concezione semitica, si definisce il “veramente esistente”. Tutto questo non risolve il problema della comprensione del nome: esso resta comunque un mistero per l’uomo. Per chi non ha pretese di comprensione letteraria e di ermeneutica, ma di fede semplice, ciò basta come bastò per il popolo di Mosé che man mano che si inoltrerà nel cammino dell’Esodo vedendo gli interventi straordinari di Dio comprenderà aldilà della comprensione del termine, la reale entità di un Dio che ama e guida il suo popolo. P. Angelo Sardone