Il giorno della Pasqua si avvicina. Stranieri e pellegrini sulla terra, incamminati con Gesù e dietro a Lui, siamo entrati festanti in Gerusalemme. Lì, dopo l’euforia esaltante dell’Osanna, con l’infamia della croce e portando in essa il peccato del mondo, il Figlio di Dio conclude il suo itinerario terreno. Ora lo attende e ci attende la passione. Anche il nostro pellegrinaggio si conclude con la morte, il passaggio ultimo della porta dalla vita terrena e finita a quella eterna senza fine nella Città santa. Siamo sopraffatti dalla vita, ad essa aggrappati; siamo “viventi”, soggetti alle norme impresse da Dio nella natura umana e nel cosmo, norme di vita e non di morte. La nostra vita è Cristo: in Lui «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At, 17,28). Tendiamo a considerare la morte come la fine di tutto e tenacemente la esorcizziamo tenendola a distanza dai pensieri: con difficoltà riusciamo ad elaborarla con le categorie umane che la rifiutano. Quando poi consideriamo che Gesù, fatto uomo, l’ha vissuta nella drammaticità di un calice colmo di amarezza e di dolore, allora cominciamo a pensarla col suo valore catartico; il peso e la paura di essa si allevia. Nel cammino della vita verso la morte, allora abbiamo bisogno di costanza e perseveranza perché nel compimento della volontà di Dio possiamo raggiungere ed ottenere quanto è stato promesso (cfr. Eb 10,35). Qualunque croce ha senso se considerata in riferimento a quella portata dal Nazareno, una atrocità raccapricciante, a cominciare dalla ferocia devastante riversata sul suo corpo, barbaramente trasfigurato da una inaudita ed accanita violenza umana, fino ad annientare ogni forma di dignità. Gesù Cristo ha sopportato tutto tacendo, dando l’insegnamento finale con il linguaggio più convincente dell’amore. La morte ti toglie tutto, ma ti dà “il tutto”. Per questo, anche nella presente calamità, non indietreggiamo ma andiamo avanti senza timore, con gioia e fierezza e, se ci riusciamo, con l’aiuto di Dio e la sua costante illuminazione, consideriamo la croce di Gesù la sua genialità ed il nostro unico e vero vanto (Gal 6,14). P. Angelo Sardone