Mese: Novembre 2023
Elisabetta d’Ungheria, santa giovane
«Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (Sap 13,5). Continuando la riflessione, quasi una sorta di processo all’idolatria e alla divinizzazione della natura, l’autore del Libro della Sapienza traccia una critica dell’idolatria sotto diverse forme: la divinizzazione degli astri e delle forze naturali, il culto degli idoli fabbricati dagli uomini, il culto degli animali. Ciò è fondamentalmente determinato dal vivere nell’ignoranza di Dio e nella cattiva sua ricerca, non potendo e non sapendo riconoscere l’artefice di tutto. Per il criterio dell’analogia dalla grandezza e bellezza delle creature, si risale e si conosce l’autore che è Dio. Di una bellezza straordinaria era S. Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), di cui si celebra oggi la memoria liturgica. All’età di appena 14 anni andò sposa a Ludovico IV di Turingia (Germania) e divenne madre l’anno dopo. Aveva appena 20 anni quando rimase vedova con tre figli da amministrare, un maschietto e due bambine, l’ultima delle quali nata già orfana. La sua nuova condizione le impose la scelta di una modesta dimora a Marburgo dove fece costruire un ospedale, e di manifesta povertà. L’appartenenza al Terz’ordine francescano, la visita quotidiana agli ammalati, la scelta di vivere da mendicante, il compimento degli uffici più umili, contrassegnarono gli anni della sua breve esistenza. Un saggio confessore seguì il suo percorso cristiano e l’avanzamento nella virtù soprattutto della carità verso gli ammalati ed i poveri, come autentica «regina di carità». Per lei era normale questo tipo di apostolato con gesti esteriori per gli inferiori. Ammalatasi giovane chiuse santamente la sua vita ad appena 24 anni. I suoi meriti e la scelta della spiritualità francescana le valsero il titolo di Compatrona dell’Ordine Secolare Francescano. Auguri a tutte coloro che portano il nome di Elisabetta, perché sul suo esempio, possano esprimere l’attenzione e la cura verso gli ultimi a cominciare dai più vicini. P. Angelo Sardone
La sapienza, effluvio di Spirito
«La sapienza è effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa» (Sap 7,25). Dopo aver speso alcune parole sulla stima di Salomone per la sapienza ed aver invocato l’ispirazione divina, il testo sacro del libro della Sapienza, traccia un elogio della sapienza stessa. Riprende le personificazioni già note, ne precisa l’origine ed enumera le caratteristiche dello spirito divino che la sapienza possiede e che illustrano la sua natura. Sono evidenziati 21 attributi che vanno dall’intelligenza, dalla santità e dall’unità fino alla sua estensione universale. Il numero 21 degli attributi (3×7) è fortemente evocativo del massimo della perfezione a lei attribuito. Si nota chiaramente l’appropriazione letteraria di alcuni termini filosofici provenienti dall’area greca. Inoltre si intravvede la teologia dello Spirito Santo alla quale la sapienza stessa viene equiparata, e la cristologia che sarà trattata dall’evangelista Giovanni, da S. Paolo e dall’autore della lettera agli Ebrei. Tutto ciò è molto interessante perché a cavallo tra il vecchio ed il nuovo Testamento, la Parola ispirata di Dio coinvolge e si tinge anche del pensiero ellenistico, più essenzialista in confronto alla mentalità ebrea più funzionale. Si tratta di una ricchezza straordinaria che coniuga la rivelazione divina con il sapere umano, illuminandolo. La formazione cristiana attinge da questi elementi che, presentati nella liturgia della Messa feriale, offrono stimoli di conoscenza ed approfondimento davvero illuminanti. P. Angelo Sardone
Il ricordo dei defunti
«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà» (Sap 3,1). Il testo classico proprio della liturgia della Parola nelle Messe esequiali viene presentato dalla Liturgia odierna come un richiamo essenziale e realistico alla condizione di coloro che non sono più nella vita terrena e godono la visione delle cose celesti. Il ricordo di chi non è più nella schiera dei viventi non è solo un sentimento umano, nobile e salutare, ma un dovere che nasce dalla natura e fa considerare il senso della vita che passa, delle creature umane, della sofferenza e della prova, del successo e della caducità delle cose. La sorte dei giusti messa a confronto con quella degli empi, è esaltata dalla certezza di fede che viene direttamente da Dio che assicura che essi sono sotto la sua protezione e la sua dipendenza. La lettura della vita soprattutto nelle battute ricche di dolori e della prova della sofferenza anche fisica, fa acquistare nella logica di Dio una conoscenza diversa dalle categorie propriamente umane segnate dal peccato e dalle sue conseguenze. La fine umana viene ritenuta una sciagura ed una rovina, e per tanti versi lo è. Quelli che sembrano i castighi molte volte sono le conseguenze della situazione delineata come empia. Alla pena, anche limitata e piccola, subentrano i grandi benefici che Dio riserva per i suoi giusti. Nei momenti del dolore acerbo per la perdita di una persona cara affiorano alla mente pensieri confusi che letti in una dimensione umana possono allontanare da Dio, ma considerati nell’ottica di fede acquistano significati e conseguenze completamente diversi. Le presenti giornate illuminate dal ricordo dei defunti, si rivelano insegnamenti efficaci e veri anche per chi non crede nel futuro radioso del Cielo. P. Angelo Sardone
S. Martino: infaticabile operaio del Vangelo
Auguri vivissimi, cara Nunzia, buon compleanno. Il Signore ti doni salute e forza e ti sostenga sempre con la sua grazia. I tuoi genitori vegliano dal cielo. Ti benedico ed abbraccio di cuore assicurandoti un particolare ricordo nella S. Messa. P. Angelo Sardone
S. Leone, il primo papa detto “magno”
«In tutte le direzioni fino ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo» (Rm 15,19). Nelle ultime battute della lettera ai Romani, S. Paolo espone i suoi progetti partendo da Gerusalemme e muovendosi verso l’Illiria per raggiungere prima Roma e poi la Spagna. Ciò che ha determinato e guida il suo zelo apostolico è portare a termine l’annuncio del vangelo, ponendo le basi di un edificio sul quale altri vi costruiranno. In questa linea evangelizzatrice si pone un grande testimone del passato, il dottore della Chiesa S. Leone detto Magno, il primo ad avere questo titolo, papa dal 440 al 461. La sua identità di consigliere di papi e pacificatore nelle controversie, gli conferì una singolare energia ed una forza straordinaria per combattere le eresie e risolvere le polemiche teologiche del suo tempo. Celebre e coraggioso fu il suo intervento quando, designato dall’imperatore Valentiniano III guidò a Mantova la delegazione romana nel tentativo di fermare Attila re degli Unni diretto a Roma. Dopo questo incontro il re abbandonò l’Italia ed i suoi propositi bellicosi. La stessa energia e lo stesso coraggio mostrò nei confronti di Genserico re dei Vandali quando nel 455 entrò in Roma, e pur non riuscendo ad impedire il saccheggio della citta, ottenne almeno il rispetto della vita dei Romani. Promosse il Concilio di Calcedonia (451) che approvò solennemente la dottrina delle due nature di Cristo, divina ed umana. La sua testimonianza di fede e di indomito coraggio nelle avversità storiche e nei contrasti teologici di allora, lo pone nella giusta considerazione di uno dei più grandi papi della storia. Auguri a coloro che portano il nome di Leone, perché sul suo esempio possano essere coraggiosi come un leone e nobili nel loro atteggiamento umano e religioso. P. Angelo Sardone
Chiesa madre di tutte le chiese di Roma e del mondo
«Mi divora lo zelo per la tua casa» (Sal 69,10). A seguito dell’episodio nel quale Gesù al Tempio di Gerusalemme, imbattutosi mei mercanti di buoi, pecore e colombe ed in numerosi cambiamonete, scacciò tutti dal tempio con le loro mercanzie affermando con vigore che la casa di Dio non era un mercato, i discepoli si ricordarono di questo versetto salmodico e lo applicarono a Cristo. Il suo atteggiamento era di difesa della dignità del luogo sacro, perché luogo della dimora di Dio e della sua gloria, luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo. Nel secolo IV, quando il cristianesimo ebbe pubblico riconoscimento, dal momento che c’era bisogno per i cristiani di luoghi adatti nei quali riunirsi a pregare, ascoltare la Parola di Dio e rinnovare il sacrificio della morte e risurrezione di Cristo, l’imperatore Costantino donò alcune proprietà accanto al suo palazzo sul colle Celio a a Roma e fece costruire una basilica accanto al suo palazzo che divenne in seguito residenza dei vescovi di Roma. Nacque così una magnifica chiesa che papa Silvestro I intitolò al SS.mo Salvatore aggiungendovi una cappella dedicata a S. Giovanni Battista nella quale si amministrava il Battesimo. Prima papa Sergio III aggiunse la dedica al Battista e poi nel XII secolo papa Lucio II anche a S. Giovanni Evangelista. Da allora si denominò Basilica del Santissimo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista in Laterano. Qui furono celebrati cinque concili in anni diversi: 1123, 1139, 1179, 1215 e 1512. Essa è la cattedrale di Roma, «capo e madre di tutte le chiese dell’urbe e dell’orbe», come riporta una iscrizione in lingua latina posta sulla facciata anteriore. Oggi si celebra la festa della sua dedicazione. Aldilà della costruzione sacra edile, come affermava S. Cesareo di Arles, siamo noi il tempio vivo e vero di Dio. P. Angelo Sardone
L’amore, pienezza della legge
«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8). Nel descrivere una serie di rapporti che i cristiani dovevano avere con le autorità civili del suo tempo S. Paolo delinea la loro sintesi nell’amore, la cosa di cui si devono occupare nei comportamenti verso il prossimo. Ciò è determinato dal fatto che proprio l’amore eleva al massimo la legge antica e nuova e la riassume. In particolare l’amore da dare sia ai fratelli delle proprie comunità che a tutti è come un debito da contrarre e pagare. Già nel Vecchio Testamento l’amore verso il prossimo era attestato come il culmine di tutta la Torah. La stessa cosa aveva fatto Gesù (Mt 22,34-40) lasciandolo come comandamento nuovo (Gv 13,34). I comandamenti infatti che si riferiscono alle relazioni con gli altri (matrimonio, omicidio, furto, desiderio di beni non propri) si ricapitolano nell’amare il prossimo come se stessi. La pienezza della Legge è la carità. Ciò evidenzia la realtà concreta della legge dell’amore. Su questi elementi si fonda il cristianesimo che prende forza dalla testimonianza di Gesù Cristo, il salvatore e redentore. La fede e la prassi cristiana necessariamente devono muoversi su questa strada se vogliono raggiungere la piena realizzazione e non ridursi a pura retorica inconcludente e fastidiosa. La cosa non è facile perché contrasta con l’egoismo umano e la ricorrente manifestazione di superiorità che contrae e non estingue i debiti perché fortemente incentrata su se stessi e la propria affermazione. Alla scuola dell’amore si impara ad amare. P. Angelo Sardone
La profondità di Dio
«O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Con il capitolo 11 si chiude nella Lettera ai Romani la lunga riflessione di S. Paolo sul popolo di Israele del quale egli si sente parte ma dal quale ha preso le distanze per via della chiamata sconvolgente al Cristianesimo che è diventata pienezza di quanto aveva appreso e vissuto fino ad allora. Dopo aver affermato che Israele deve essere considerato con grande stima e rispetto ed aver chiarito che la conversione di Israele porterà certamente a compimento il disegno salvifico di Dio, antico e sempre nuovo, Paolo esprime il desiderio che i Romani comprendano il disegno divino come intervento di bontà, che raggiunge il suo scopo attraverso la bontà e la misericordia di Dio. Spera che i suoi correligionari abbandonino la loro incredulità dinanzi allo spartiacque che è Gesù Cristo ed il suo Vangelo, proprio come hanno fatto i pagani. La sorta di prigione nella quale sono relegati a causa del peccato, può essere infranta solo dalla forza potente di Dio che attraverso la sua bontà opera la liberazione. Questa ricchezza, saggezza e conoscenza sorprende lo stesso Apostolo che confessa come ogni altro uomo, l’inaccessibilità dell’uomo a comprenderle. Tutto si ferma come dinanzi ad una barriera che blocca la conoscenza profonda della trascendenza divina. Dio rimane il totalmente diverso, l’incomprensibile, giusta l’espressione del teologo Karl Barth, «il totalmente altro»! In questa ottica si comprende come tutto è in relazione con Dio e tutto da Lui dipende. P. Angelo Sardone
Il forte monito di Malachia per i sacerdoti
«Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione (Ml 2,2). Decisamente incamminata verso la conclusione dell’anno liturgico, la Liturgia con la ricchezza dalla Parola di Dio, richiama in maniera profonda e coinvolgente tutte le categorie dei fedeli in una riflessione adeguata di natura propriamente escatologica. La fine della vita e delle cose prospetta sempre una revisione del proprio essere e del proprio agire. Il richiamo profetico di Malachia ai sacerdoti del suo tempo e del tempio di Gerusalemme, al di là del mero rimprovero, è un monito che indica il vero modo di servire il Signore ed il popolo di Dio. Il loro compito è innanzitutto la premura di dare gloria al nome del Signore. Il ruolo fondamentale insito nell’identità sacerdotale implica la testimonianza di una retta vita in una retta via per non essere di inciampo a nessuno, sia con l’insegnamento che con la prassi. La deviazione da questo compito, rende spregevoli agli occhi di Dio ed abietti agli occhi dei fedeli a causa dell’infedeltà e della parzialità del comportamento. Il rischio è davvero grande: la perfidia nel rapporto vicendevole e col popolo di Dio e la profanazione dell’alleanza. Quanto sono dure e vere queste parole che si possono applicare analogamente al sacerdozio cattolico di ogni tempo. L’alleanza stabilita con Gesù sommo ed eterno sacerdote all’atto della consacrazione sacramentale, implica l’assunzione in toto dei precetti di Dio e la fedeltà al Magistero ed alla Tradizione della Chiesa in un cammino di perfezione continua e di testimonianza coerente nell’esercizio del proprio ministero. Quanta responsabilità per noi sacerdoti e quanti stimoli davvero efficaci di conversione e di ravvedimento per continuare l’itinerario della nostra vita, segnato dalla coerenza e da un serio e perseverante servizio. P. Angelo Sardone