Gesù trasfigurato

Il profeta Daniele è presentato nel libro omonimo come un giovane giudeo che era stato deportato alla corte del re Nabucodonosor. È considerato uomo saggio e giusto. L’inizio della seconda parte del libro contiene le visioni notturne, di cui egli è beneficiario, delle bestie, prima, del Figlio dell’uomo, poi. La visione delle quattro bestie, una differente dall’altra, riporta la loro descrizione. Salgono dal mar Mediterraneo e sono un leone con ali di aquila, un orso, un leopardo, una quarta spaventosa, terribile con dieci corna. Rappresentano rispettivamente l’impero di Babilonia, il regno dei Medi, quello dei Persiani, il regno di Alessandro. Alla fine compare un vegliardo che si siede sopra un trono con vampe di fuoco, e ruote infuocate. Tutto è fuoco attorno a lui. Il profeta lo descrive come un essere umano, dalla veste candida come la neve ed i capelli candidi come la lana. È la rappresentazione di Dio con i simboli espressivi della sua eternità (i capelli candidi), la trascendenza (la veste come la neve), la supremazia sull’intero universo (il fiume di fuoco) e la sua maestà (il numero enorme dei suoi servi). Appare poi uno simile ad un figlio d’uomo al quale sono conferiti onore, potere e gloria. Il tratto glorioso delle visioni viene posto nella liturgia odierna in correlazione con la festa della Trasfigurazione di Gesù, dove il viso, le vesti e la teofania richiamano la visione del profeta. Si deve a S. Agostino l’interpretazione della veste candida con la quale è simboleggiata la Chiesa. Si tratta della prefigurazione della maestà e della gloria di Dio manifestata nel suo Figlio nel mistero della risurrezione, una anticipazione di ciò che è il Paradiso. P. Angelo Sardone

L’Anno santo ieri ed oggi

«Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé; esso sarà per voi santo» (Lv 25,11-12). Il Libro del Levitico nella sezione contrassegnata come “legge di santità”, riporta indicazioni e prescrizioni circa gli anni santi, distinguendoli in «sabbatico» e «anno del giubileo». In particolare quest’ultimo si diceva tale perché era annunziato dal suono di un corno (jobel). Cadeva ogni 50 anni e si concretizzava come anno di liberazione per tutta la terra: ciascuno doveva tornare alla propria terra, alla sua famiglia. In questo anno particolare, dichiarato santo non si doveva coltivare né fare potature e vendemmie. La raccolta per il nutrimento consisteva in tutto ciò che la terra produceva spontaneamente nei campi. Tutto questo si fondava su un’antica concezione: Jahwé era il vero proprietario della terra e gli Israeliti, gli affittuari. Era bandito il monopolio terriero. Questa tradizione è passata poi nella prassi della Chiesa cattolica con un significato più profondo che implica il perdono generale, l’indulgenza per tutti. Il primo Giubileo fu indetto nel 1300 da Bonifacio VIII che fissò la scadenza ogni 100 anni. Poi si passò a 50 anni. Attualmente il giubileo cade ogni 25 anni e si dice «Anno Santo», ordinario e straordinario, quando è celebrato regolarmente o in occasione di particolari ricorrenze. La sua durata è di un anno. L’inizio è determinato dall’apertura delle porte sante delle quattro basiliche maggiori di Roma, S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore e S. Paolo e si conclude con la muratura delle stesse porte sante fino al successivo anno santo. Si caratterizza come anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, anno della riconciliazione tra i contendenti, della conversione e della penitenza sacramentale, della solidarietà, della speranza. Di straordinaria risonanza mediatica e celebrativa fu quello del 2000, in occasione dei due millenni dalla venuta di Cristo in terra, con la presenza di S. Giovanni Paolo II. È in preparazione il giubileo del 2025 dal tema «Peregrinantes in Spem», peregrinanti nella speranza. Oggi è la memoria liturgica facoltativa della «Madonna della neve», per il prodigio della nevicata d’estate a Roma del 352 sul colle Esquilino e la successiva costruzione della basilica di S. Maria Maggiore. P. Angelo Sardone

La follia del santo Curato d’Ars

«Il sacerdote eleverà il covone davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote lo eleverà il giorno dopo il sabato» (Lv 23,10-11). Il Il terzo libro della Bibbia, il Levitico, prende il nome da uno dei figli di Giacobbe, Levi, capostipite della omonima tribù sacerdotale e contiene le diverse leggi che regolano i sacrifici, l’istituzione del sacerdozio, le offerte e norme votive. In particolare il rituale delle feste dell’anno prevede l’offerta del primo covone, primizia del raccolto, fatta al sacerdote il quale lo agita davanti al Signore perché sia propizio al popolo. Il rito si perpetuerà nella celebrazione cristiana della Eucaristia che avverrà particolarmente il giorno dopo il sabato, cioè la domenica. Il sacerdote presenta ogni giorno le offerte del popolo di Dio nella S. Messa, le stesse che col miracolo della transustanziazione, sono trasformate in corpo e sangue di Cristo. Questo, ha fatto per oltre quarant’anni S. Giovanni Maria Vianney (1786-1859), meglio conosciuto come «il santo Curato d’Ars», alternando la Celebrazione eucaristica all’amministrazione del Sacramento della Penitenza ed alla catechesi, senza alcun risparmio. Pur essendo debole negli studi, ebbe accesso al sacerdozio per la tenacia e la fiducia dell’abate Balley che credeva in lui, lo aveva avviato al seminario e poi accolto quando fu sospeso dagli studi. Inviato ad Ars-en-Dombes, villaggio di quasi trecento abitanti, con una situazione religiosa assolutamente precaria, si dedicò interamente all’evangelizzazione, rifulgendo per un’austera e straordinaria penitenza e vita interiore, con grande bontà e carità, «umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente» (Benedetto XVI). La fama della sua santità, costruita con grandi mortificazioni e lotte continue col demonio, superò ogni limite e raggiunse ogni parte dell’Europa. Il suo vescovo augurava a tutto il suo clero «un granellino di quella medesima follia», la sua follia d’amore. Potessimo noi sacerdoti praticare oggi la stessa eroica follia! P. Angelo Sardone

Il propiziatorio

«Mosè prese la Testimonianza, la pose dentro l’arca, mise le stanghe all’arca e pose il propiziatorio sull’arca» (Es 40,20). Il cammino di liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto va avanti. Il secondo anno, secondo gli ordini ricevuti dal Signore, dopo aver costruito l’arca dell’alleanza, una cassa, prezioso manufatto proprio come Jahwé aveva prestabilito, Mosè eresse la Dimora nella quale collocò l’arca. Per essa aveva adoperato legno di acacia e l’aveva ricoperta d’oro dentro e fuori. Misurava circa 1,30 metri per 0,70 e 0,70 e conteneva le due tavole di pietra. Ai lati erano state fissate con quattro anelli d’oro, due stanghe di legno dorato, con le quali l’arca veniva sollevata e trasportata. Sul coperchio c’era un piatto dorato detto «propiziatorio» ed era il luogo sul quale si posava la nube che indicava la presenza di Dio, dove Egli riceveva l’espiazione e distribuiva la misericordia all’uomo quando il sangue dell’espiazione veniva spruzzato su di esso. Era questa l’idea di rimozione del peccato. Vi erano anche due cherubini l’uno di fronte all’altro, le cui ali sovrastavano il propiziatorio. Nella Lettera ai Romani S. Paolo definirà Cristo «propiziazione», colui che compie l’espiazione col suo sangue per il perdono dei peccati (Rm 3,24-25). L’arca era custodita nella dimora o «tabernacolo», la tenda dell’incontro, una costruzione mobile che accompagnava gli Israeliti durante il cammino nel deserto fino alla conquista della Terra Promessa. Era il segno della signoria di Dio ed il simbolo dell’alleanza. Nella tradizione e nella prassi cristiana, sarà chiamato “tabernacolo” l’edicola nella quale si conserva il corpo di Cristo, il Santissimo Sacramento dell’altare. P. Angelo Sardone

Il perdono di Assisi

«Mosè non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore» (Es 34,29). L’esperienza di incontro con Dio purifica, rinnova, rende raggianti. Non ci si accorge immediatamente, ma si sente nell’intimo il grande dono del cambiamento. Nella giornata nella quale in alcuni contesti urbani ed ecclesiali si celebra la Madonna degli Angeli, la Chiesa ricorda il privilegio francescano del cosiddetto «perdono di Assisi». Si tratta della indulgenza plenaria che si ottiene nelle chiese parrocchiali e in quelle francescane dal mezzogiorno del 1º agosto alla mezzanotte del 2. Ciò fu determinato da una apparizione che S. Francesco ebbe nella chiesetta della Porziuncola nella quale al Signore egli chiese pietà per i peccatori ed il perdono per tutti coloro che, pentiti, avrebbero varcato quella soglia. Si rivolse al Papa Onorio III che il 2 agosto 1216 gli accordò questo privilegio che poi la Chiesa ha allargato a tutte le chiese parrocchiali. «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. Essa è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati» [Paolo VI, Indulgentiarum doctrina, Norme 1-3, 5-24]. Essa è applicabile ai vivi ed ai defunti (CCC 1498). Queste le condizioni per ottenerla: fare la confessione sacramentale e la comunione eucaristica, pregare secondo le intenzioni del Papa (Padre Nostro o Credo), compiere un’opera di carità, di culto o di penitenza. È un’ottima occasione per il cammino di purificazione e di santificazione. P. Angelo Sardone

S. Alfonso ed i suoi grandi amori: l’Eucaristia e Maria

«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9). Nonostante la colpa grave del popolo, Dio rinnova la sua alleanza. La mediazione solerte di Mosè e la sua obbedienza a Jahwé causa nuovamente il dono della legge incisa su tavole di pietra come le prime. L’esperienza mistica del grande condottiero d’Israele si è riverberata nel corso dei secoli nella vita della Chiesa e nei Santi. Oggi si fa memoria di un illustre santo che compendia in sé elementi diversi che costituiscono il cammino di perfezione e di santificazione: l’amore all’Eucaristia (celebri le Visite al SS.mo Sacramento), l’amore a Maria, la predicazione delle missioni popolari, lo sviluppo dello studio della teologia morale e la sua retta applicazione alla vita cristiana, la musica a servizio del popolo di Dio (si devono a lui il Tu scendi dalle stelle, Quando nascette Ninno). Si tratta di S. Alfonso M. de’ Liguori, (1696-1787), nobile napoletano, dotto avvocato che, dopo una cocente delusione in un processo dominato dalla falsità, si dedicò completamente al Signore divenendo sacerdote e svolgendo il suo ministero nei quartieri più poveri di Napoli. Con alcuni compagni fondò la Congregazione del SS. Salvatore, i Redentoristi. Il 1760 fu nominato vescovo di Sant’Agata de’ Goti e governò la sua diocesi con dedizione, fino alla morte. È sepolto a Pagani (Sa) nell’omonima chiesa annessa al convento fondato nel 1743. S. Annibale M. Di Francia, di origine napoletana per via della mamma, era grandemente devoto di S. Alfonso e più volte fece gli esercizi spirituali nella Casa di Pagani, assorbendo dal Santo le grandi sue devozioni, eucaristica e mariana. P. Angelo Sardone