La pasqua ebraica
«Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). La dura ostinazione del faraone nel non lasciare liberi gli Ebrei di andare a compiere nel deserto il sacrificio al loro Dio, causò quelle che biblicamente si chiamano le «piaghe d’Egitto» cioè i segni straordinari operati da Dio nel tentativo di costringerlo a cedere. I prodigi non erano stati abbastanza: dall’acqua cambiata in sangue, alle rane ed ai mosconi, dalla morte del bestiame, alle ulcere ed alla grandine, dalle cavallette alle tenebre, fino poi a quello definitivo della morte dei primogeniti. In questo frangente si inserisce l’istituzione della Pasqua, nel senso più arcaico del termine, il passaggio. Dio dà a Mosè indicazioni precise che saranno perenni. La festa era sostanzialmente ancorata ad un rito dei pastori nomadi per perorare la fecondità del gregge. Molto probabilmente era proprio la festa che Mosè chiedeva al faraone di andare a celebrare. Essa diventerà il «memoriale» dell’uscita del popolo di Israele dalla terra di Egitto, la liberazione dalla schiavitù. Il mese è il primo della primavera (tra marzo ed aprile). Il cerimoniale è quello tipico della mentalità e del costume pastorizio nomade: uso del pane azzimo, cioè non fermentato, e delle erbe amare, tipiche del deserto, consumazione delle carni dell’agnello arrostite al fuoco, in fretta e con i fianchi cinti, pronti per partire. In questa maniera la pasqua ebraica prepara quella cristiana nella quale Gesù si sostituirà all’agnello, divenendo egli stesso «agnello che toglie i peccati del mondo». Le grandi verità preannunziate da Dio si rinnovano nel perenne memoriale, cioè riattualizzazione, della Pasqua cristiana che si celebra ogni giorno e particolarmente la domenica, con la S. Messa. P. Angelo Sardone