Giuseppe ed i fratelli
«Che guadagno c’è a uccidere il nostro fratello e a coprire il suo sangue? perché è nostro fratello e nostra carne» (Gen 37,26-27). Le conseguenze del peccato dopo Caino dominano la società degli inizi e il tempo dei Patriarchi. La vicenda di Giuseppe venduto dai fratelli e sottratto dalla morte dal fratello maggiore Ruben in forza della condivisione della stessa carne e dello stesso sangue, si pone come emblematico dinanzi alla risoluzione omicida degli altri fratelli a causa di una terribile invidia nei suoi confronti. In fondo la morte di Cristo sulla croce è stata determinata da un atteggiamento diabolico dei Capi di allora nei confronti dell’innocente agnello condotto al macello secondo la nota profezia di Isaia. La contemplazione del mistero della passione in questo venerdì di Quaresima si rispecchia nel cammino della via della croce, il pio esercizio che affonda le sue radici già intorno al 1294 quando un frate domenicano, Rinaldo di Monte Crucis, nella sua opera il «Libro del pellegrinaggio» racconta la sua salita al Santo Sepolcro «attraverso la via per la quale è salito Cristo, portando con sé la croce» e descrive le varie tappe, dette «stazioni»: il palazzo di Erode, il luogo nel quale Gesù fu condannato a morte, l’incontro con le donne di Gerusalemme, il coinvolgimento di Simone di Cirene a portare la croce del Signore. Dal punto di vista storico, in concomitanza con la tradizione francescana, questa pratica così come si svolge oggi, con le quattordici stazioni disposte nello stesso ordine, è attestata in Spagna ad opera di un altro frate domenicano, il Beato Alvaro. In seguito passò in Italia. L’esercizio della Via Crucis nel corso del tempo ha arrecato tanto bene spirituale a chi l’ha praticato. P. Angelo Sardone