La chiamata di Matteo dal telonio

«A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (Ef 4,7). Dio distribuisce con larghezza di cuore e di amore la sua grazia apportatrice di salvezza. La misura del dono è sempre pienamente frutto di un amore di predilezione che supera i confini del peccato e del pregiudizio ed infonde vigore necessario per la realizzazione del piano di Dio. La chiamata di Matteo dal telonio è l’icona della liturgia odierna che celebra la festa del primo degli apostoli evangelisti. Il racconto fatto personalmente dall’interessato, che gli evangelisti Marco e Luca chiamano Levi, scaccia ogni dubbio sulla verità di una chiamata sorprendente che mette in crisi i pregiudizi riguardo a chi è o non è degno di seguire Gesù. Il suo vangelo, il più lungo dei quattro, di ben 28 capitoli, fu scritto nella lingua aramaica quella parlata dalla gente ed è diretto ai cristiani di origine ebraica. Lo testimonia anche il ricorso frequente a citazioni bibliche. Matteo è identificato come “pubblicano”, un appellativo negativo dato anche per il suo compito di esattore delle tasse a Cafarnao, dove agiva per conto dei Romani. Per questo veniva guardato e giudicato come un collaborazionista dal quale guardarsi e tenersi lontano. Gesù passando lo vede e gli dice solo «Seguimi!». S. Beda commenterà: «Seguimi, significa imitami!». Dinanzi alla chiamata, frutto esclusivo di amore, cadono tutti i pregiudizi che tante volte anche oggi limitano vistosamente l’accoglienza di chi notoriamente è un moderno pubblicano, avvezzo non solo a collaborazione disonesta, ma anche a vita dubbia e peccaminosa. Quando il Signore chiama, trasforma! L’importante è alzarsi dalla propria situazione di vita, dal peccato, dal disordine e seguire Gesù. Auguri a tutti coloro che portano il nome di Matteo che significa “uomo di Dio”. P. Angelo Sardone

I santi martiri Coreani

«Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio» (Pr 21,3). Uno dei testi significativi della letteratura didattico-sapienziale ed insieme il più antico, è il Libro dei Proverbi (31 capitoli), un insieme di almeno sette raccolte più antiche. Anche se viene indicato Salomone come autore, non può essere lui; è più probabile che alcune raccolte siano state effettuate durante il suo regno (961-922 a.C.). Uno dei tanti elementi che si ritrova in tutto l’Antico Testamento come insistenza sulla rettitudine di cuore, è la pratica della giustizia dal valore superiore a qualsiasi altro sacrificio. Una simile azione si trova realizzata nella vita e nell’opera di un gruppo di 103 coreani, a cominciare dal sacerdote Andrea Kim Taegon (1821-1846) e dal laico Paolo Chong Hasang (1795-1839), martiri nel corso delle persecuzioni dal 1839 al 1867. A nulla valsero i tentativi di farli apostatare e le atroci torture fino alla decapitazione. Il numero globale dei martiri coreani calcolato è di circa diecimila, sacerdoti e laici, dal più giovane di 13 anni al più anziano di 79. Il primo contatto con la fede cristiana era avvenuto in Cina e col libro del missionario gesuita padre Matteo Ricci. La prima comunità cristiana sin dagli inizi fu vittima di una persecuzione crudele con la morte dell’unico prete presente nel Paese. Pur senza guida spirituale i fedeli chiedevano sacerdoti che arrivarono solo il 1837. Il loro sacrificio si è concretizzato nella pratica della giustizia. Quanto abbiamo da imparare oggi anche noi, praticando e testimoniando la nostra fede. P. Angelo Sardone

La Madonna della Salette

«Queste sono le due cose che tanto appesantiscono il braccio di mio Figlio» (Maria SS.ma a La Salette). Erano circa le 14 pomeridiane di sabato 19 settembre 1846 quando sul monte de La Salette, nel dipartimento dell’Isère, in Francia, la Madonna apparve a due pastorelli, Melania Calvat e Massimino Giraud, rispettivamente di 15 e 11 anni. Mentre le vacche erano al pascolo furono attratti da una luce splendente che faceva da alone ad una donna seduta sopra i sassi col volto tra le mani e le lagrime che le scendevano abbondanti dagli occhi. Si avvicinarono e, vinta la paura alle dolci parole della donna vestita di luce, si resero conto che si trattava di qualcosa fuori del normale. La “bella Signora” indossava gli abiti di una contadina ed aveva sul petto una tenaglia, un martello, un crocifisso e le rose ai piedi. Parlò loro nel dialetto di Corps loro paese natale. La «grande notizia» conteneva constatazioni ed avvertimenti, a partire dalla sua sofferenza per l’umanità, al braccio pesante del Figlio divenuto ormai insostenibile, ai raccolti guasti dei campi, alla carestia, alla pena della Madre verso i suoi figli. Il peso del braccio del Figlio era determinato dal mancato riposo festivo della domenica e dalla bestemmia continua contro il nome di Gesù. A rimedio di ciò Ella indicava la preghiera e la conversione. A ciascuno dei veggenti la Vergine, Riconciliatrice dei peccatori, rivelava poi un segreto, ingiungendo particolarmente a Melania di comunicarlo solo dodici anni dopo. Mentre si muoveva per il commiato, per ben due volte ripetè: «Ebbene, figli miei, voi lo farete conoscere a tutto il mio popolo». Questo è il cuore del messaggio della Salette. Nel 1851 con alcuni sacerdoti diocesani nacque la Congregazione dei Salettini. Massimino morì il 1875; il suo cuore riposa nella basilica de La Salette. Melania concluse la sua vita travagliata il 15 dicembre 1904, ad Altamura (Bari), dove è sepolta nella chiesa delle Figlie del Divino Zelo la cui Casa religiosa S. Annibale M. Di Francia volle intitolare alla Madonna della Salette. P. Angelo Sardone

Amos e la questione sociale

«Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere» (Am 8,7). Sono molto interessanti la storia e le profezie di Amos, il pecoraio di Tekoa, direttamente preso dal Signore da dietro il suo gregge ed inviato a profetare al santuario scismatico di Bethel. Egli condannava la vita corrotta delle città e le ingiustizie sociali, la falsa sicurezza posta nei riti celebrati ed un po’ meno nell’impegno morale. La terza parte del suo minuscolo libro (appena 9 capitoli), comprende alcune visioni e l’annunzio della fine, detto generalmente il giorno del Signore. Alcune invettive decise e ferme sono rivolte a coloro che calpestano il povero e sterminano gli umili, contro gli speculatori e gli approfittatori, ai danni di coloro che non possiedono nulla e si lasciano comprare per un paio di sandali. La determinazione del Signore è precisa: non dimentica le opere dei malvagi, soprattutto quelle contro ogni forma di povertà ed il castigo è individuato nel terremoto che fa sobbalzare la terra come le acque del Nilo mettendo in lutto gli abitanti. L’intera catastrofica situazione cederà però il passo a prospettive di restaurazione e di fecondità simile a quella del Paradiso. Il Signore guarda dal cielo e si affaccia dalla sua finestra per osservare la terra ed i suoi abitanti, scorgendo tanto bene, accanto però anche a tanto male. Egli vede, osserva e quando interviene duramente lo fa per la correzione. Tutto è davanti ai suoi occhi, sempre. Non dimentica il bene per potenziarlo, non dimentica il male per correggerlo in maniera adeguata. P. Angelo Sardone

Sintesi liturgica della XXV domenica del Tempo Ordinario

Sintesi liturgica. XXVª Domenica del Tempo Ordinario. A coloro che calpestano il povero, sterminano gli umili del paese ed attendono il momento giusto per smerciare in maniera fraudolenta il frumento, il Signore assicura che non dimentica mai le loro opere. L’amministratore scaltro, ma disonesto, sa trovare sempre il modo come venire fuori dalle situazioni più gravi della sua gestione: condonare proporzionalmente all’olio ed al grano, il debito dovuto al suo padrone da alcuni suoi servi. Questo comportamento viene lodato dal Signore non per la disonestà, ma per la scaltrezza, onde esortare a guadagnare il Regno ed avere la certezza di non rimanere per strada. La fedeltà o la disonestà nel poco si riverbera nel molto. La garanzia di una vita calma e tranquilla, apportatrice di salvezza e conoscenza della verità, è assicurata dalla preghiera nei suoi molteplici aspetti: domanda, supplica, ringraziamento, con mani pure, senza collera e contese, mediata da Gesù Cristo. P. Angelo Sardone

La storia del seme che muore e dà vita

«Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore» (1Cor 15,36). La legge della natura, evocata dallo stesso Gesù Cristo, prevede che il seme gettato nel terreno non prende vita se non dopo la sua morte ed il suo disfacimento. E’ questo l’appiglio al quale si rifà S. Paolo presentando la spinosa questione della risurrezione dai morti ad una società ostica come quella greca che era assolutamente riluttante a qualsiasi riferimento alla risurrezione dei corpi. L’aveva sperimentato con grande delusione proprio ad Atene. La chiarezza espositiva dell’Apostolo è sorprendente: il corpo seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; quello seminato nella miseria, risorge nella gloria; il corpo seminato nella debolezza, risorge nella potenza; seminato come corpo animale, risorge corpo spirituale. Questo intervento è sollecitato da una diffusa forma di antropologia nella mentalità greca che attribuiva al corpo una funzione negativa nella espressione della persona e di conseguenza offuscava la spiritualità e la stessa immortalità. Paolo dà dimostrazione chiara di preparazione ricorrendo ad analogie tratte dal mondo della natura. Il cardine di tutto rimane l’onnipotenza creatrice di Dio le cui risorse sono inesauribili. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso principio: per vivere bisogna morire. Quante idee, testimonianze, azioni, per essere efficaci o essere ritenute tali devono passare attraverso il processo dell’umiliazione e della morte prima di assurgere a valori incontrastati e credibili. Purtroppo facilmente ci si scoraggia o a tutti i costi si tenta di far valere le proprie posizioni. Nell’uno e nell’altro caso, occorre essere prudenti e saggi sapendo attendere, e pazientare, come fa il contadino. P. Angelo Sardone

I santi Cornelio e Cipriano per l’unità della Chiesa

«Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). La certezza delle fede cristiana è data dal fatto che Gesù Cristo, dopo tre giorni dalla morte è risorto. Se non fosse così la predicazione sarebbe vuota e vana è la fede. La risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra risurrezione. Quelli che muoiono in Cristo e per Cristo non sono perduti. In questo senso si muove la memoria liturgica di oggi che vede accomunati nel martirio ed in idealità condivise, due grandi Santi del III secolo, i cui nomi sono riportati nel Canone Romano: papa Cornelio (210-253), pastore di animo grande e Cipriano (210-258) vescovo di Cartagine. Cornelio fece fronte ad uno dei primi scismi provocato dal prete Novaziano, che diede vita ad una comunità dissidente, e difese l’unità della Chiesa, confortato dalla solidarietà e dal vigoroso sostegno di Cipriano uno dei massimi esponenti del cristianesimo latino. Egli aveva dato un notevole contributo alla dottrina sull’unità della Chiesa raccolta intorno all’Eucaristia sotto la guida dei vescovi e di questi in comunione con la sede principale di Roma, fondata su Pietro il capo degli Apostoli. La storia dei primi secoli del Cristianesimo ha consolidato dal punto di vista organizzativo, teologico e giuridico tanti presupposti che Santi eminenti come loro hanno affermato e difeso. Una conoscenza più adeguata ed uno studio più approfondito permette di scoprire la grandezza di questi passi, il coraggio, la santità e l’eroismo di questi grandi uomini, cui si deve tanta gratitudine ed ammirazione. Auguri a tutti coloro che portano i loro nomi, forse non molto comuni nella odierna società e nella moderna mentalità. P. Angelo Sardone

La Madre Addolorata

«Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius». L’inizio della celebre sequenza attribuita al frate francescano Jacopone da Todi, scritta fra 1303 e il 1306, è una tra le più belle rievocazioni dell’odierna memoria liturgica di importante rilevanza dottrinale e pastorale, la Beata Vergine Maria Addolorata. Maria di Nazaret, la donna del dolore, accanto al suo figlio Gesù fu partecipe della sua passione. I dolori già sentenziati dal santo vecchio Simeone nel segno della spada che le avrebbe trafitto l’anima (Lc 22,35) e che in un certo senso «scavava nella sua vita i gradini della via crucis» (Papa Francesco), si concretizzarono nella vita pubblica di Gesù ed ancor più nel mistero della sua passione e morte. La Tradizione popolare cristiana ne ha identificati sette, espressi nell’iconografia e nella statuaria dalle sette spade che solitamente sono collocate nel petto di Maria Addolorata e che corrispondono a sette episodi evangelici. Non si può rimanere indifferenti dinanzi al volto pallido e pietoso di Maria, alle sue mani strette sul cuore quasi a dire: «Compatitemi, io sono stata la madre più afflitta, più addolorata che mai ci sia stata» (S. Annibale). La Vergine è la desolata: in Lei si concentra e si appoggia il dolore dell’intero universo per la morte del Figlio e si esprime con la bellissima immagine della Pietà, la Madre che sorregge sul grembo il Figlio morto. Maria continua a piangere ancora oggi, nonostante i suoi ripetuti richiami in diverse apparizioni, per lo smarrimento dei suoi figli ed il persistente peccato dell’umanità ed è sempre presente nella vita della Chiesa e dei suoi figli a Lei affidati da Cristo morente sulla croce. P. Angelo Sardone

Il mistero della Santa Croce

«Ecco il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria: l’artefice di tutto il creato è appeso ad un patibolo» (Dalla Liturgia). L’inno dei Vespri odierni nella Festa dell’esaltazione della Santa Croce, adatta il celebre «Vexilla regis» tratto da un componimento latino del vescovo Venanzio Fortunato, redatto in occasione dell’arrivo della reliquia della croce a Poitiers e cantato in tempi liturgici diversi. É uno dei modi con i quali si celebra il mistero della santa Croce, fonte di salvezza. La festa ha origini antiche che risalgono al 14 settembre 335, nell’anniversario della dedicazione di due basiliche edificate da Costantino a Gerusalemme, sul Golgota e al santo Sepolcro, a seguito del ritrovamento delle reliquie della croce ad opera di sua madre sant’Elena. Attorno alla croce, il più terribile strumento di supplizio e di morte, si è sviluppata nel tempo una vera e propria «sapientia e scientia crucis», un itinerario di pensiero e di santificazione che ha visto protagonisti ed interpreti diversi Santi e Sante. La liturgia canta la croce come albero di vita, talamo, trono ed altare, segno visibile dell’eterna signoria di Cristo. Nel suo nome si mosse e si muove l’evangelizzazione, a partire dalle indicazioni di Gesù di Nazaret che chiede ai suoi seguaci di prendere ogni giorno la propria croce. Nonostante continui ad essere «scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili», la croce è la vera arma che sconfigge il male, il segno della riconciliazione, del perdono e dell’amore. Su di essa Cristo ha sperimentato il triplice mistero del patire: i dolori dell’umanità, le ignominie, le pene intime (S. Annibale M. Di Francia). Seguendo la Croce possiamo diventare messaggeri di amore e di pace. P. Angelo Sardone

La parola vera da una bocca d’oro

805. «Ecco il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria: l’artefice di tutto il creato è appeso ad un patibolo» (Dalla Liturgia). L’inno dei Vespri odierni nella Celebrazione della festa dell’esaltazione della santa Croce, adatta il celebre inno «Vexilla regis» tratto da un componimento latino del vescovo Venanzio Fortunato, redatto in occasione dell’arrivo della reliquia della croce a Poitiers e cantato in momenti liturgici diversi. E’ uno degli elementi con i quali si celebra il mistero della croce, fonte di salvezza. La festa ha origini antiche risalenti al 14 settembre 335 nell’anniversario della dedicazione delle due basiliche edificate da Costantino a Gerusalemme, sul Golgota e al santo Sepolcro, a seguito del ritrovamento delle reliquie della croce ad opera di sua madre Elena. Attorno alla croce, il più terribile strumento di supplizio e di morte, si è sviluppata nel tempo una vera e propria sapientia crucis, un itinerario di riflessione e di santificazione che ha visto protagonisti diversi santi e sante. La liturgica la canta albero di vita, talamo, trono ed altare, segno visibile della eterna signoria di Cristo. Nel suo nome si mosse e si muove l’evangelizzazione, a partire anche dalle indicazioni di Gesù di Nazaret che chiede ai suoi seguaci di prendere ogni giorno la propria croce. Nonostante continui ad essere «scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili», la croce è la nuova arma, il segno della riconciliazione, del perdono e dell’amore. Su di essa Cristo ha sperimentato il triplice mistero del patire: i dolori dell’umanità, le ignominie, le pene intime (S. Annibale M. Di Francia). Seguendo la Croce siamo chiamati a diventare messaggeri di amore e di pace. P. Angelo Sardone