I nostri peccati sono in fondo al mare

«Dio non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7,18). Un’ardente e fiduciosa preghiera, sulla falsa riga di un salmo, chiude il minuscolo libro di Michea, con un’accorata invocazione del perdono divino. La speranza domina il testo che riconosce in Dio il potere della restaurazione di Gerusalemme che accoglierà israeliti dispersi e pagani convertiti. Rientrati dall’esilio i Giudei vivono in un territorio povero e proprio in questa situazione di precarietà riconoscono la bontà e la misericordia di Dio che perdona il peccato, non conserva l’ira per sempre, è gioioso nell’usare misericordia e nel manifestare la grandezza del suo amore. L’israelita, come il cristiano di ogni tempo, sa riconoscere questa prerogativa. Ha piena coscienza che nonostante la freddezza umana e la facile infedeltà verso i precetti ed i comandi divini, Dio ritorna sui suoi passi di benevolenza, calpesta le colpe e getta in mare tutti i peccati commessi dall’uomo per la sua fragilità dovuta al peccato. Dio è fedele sempre: i suoi interventi di misericordia sono chiari e coinvolgenti. In un tempo come il nostro dove tutto è labile, espressioni di questo genere sono un forte impulso all’abbandono nelle mani e nel cuore di un Dio che ama il suo popolo e fa sempre di tutto per andargli incontro, inducendo ciascuno a ritornare sui propri passi, a riconoscere le proprie colpe. Garantisce inoltre l’oblio del peccato umano, nel segno del gettare ogni cosa nella profondità del mare, dove nulla si può vedere e raggiungere. È questa la fede che guarda il Dio di ogni grazia: Egli con l’architrave della sua misericordia regge la Chiesa e la vita dei credenti. P. Angelo Sardone

L’accoglienza di Dio nella propria casa

«Mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono» (Gn 18,8). Il Patriarca Abramo chiamato da Dio dalla zona di Ur dei Caldei, dopo aver lasciato la sua patria si incamminò verso la terra che il Signore volta per volta gli mostrava, fino a raggiungere la terra di Canaan. Spostandosi con le sue tende si accampò in una località detta “Querce di Mamre”, ad Ebron, a circa 30 km di quella che sarebbe poi stata Gerusalemme. La quercia nella mentalità biblica è sinonimo di sacralità e richiama particolari eventi. Spesso proprio accanto ad una quercia rigogliosa, adatta per riparare dalla calura, i nomadi piantavano le tende. Nell’ora più calda di un giorno mentre Abramo era seduto all’ingresso della sua tenda a riposarsi non senza un velo di mestizia, si presentarono tre uomini. Egli si era sempre mosso sull’onda della fede, aveva allacciato con Dio un rapporto di alleanza accogliendo le promesse di una discendenza numerosa, ma a parte Ismaele avuto dalla schiava Agar, non c’era speranza di un figlio suo perché Sara, sua moglie era sterile. Il senso dell’ospitalità in lui innato gli fa accogliere i tre ospiti e lo mobilita immediatamente nel preparare loro da mangiare, un tenero vitello e focacce. I tre, che si rivelano essere angeli, mentre Abramo rimane in piedi in atteggiamento di rispetto e venerazione, mangiano con gusto e chiedono di Sara. Evidentemente il loro passaggio era finalizzato. Promettono che di là ad un anno, quando ripasseranno, Sara diventerà madre di un figlio. Tutto puntualmente si realizzerà. La speranza e l’affidamento a Dio non deludono mai. P. Angelo Sardone

La Madonna del Carmelo

«Ecco una nuvoletta, come una mano d’uomo, sale dal mare» (1Re 18,43).

Il Carmelo è il monte delle gesta eclatanti del profeta Elia, la vittoria sui 450 profeti di Baal ed i 400 di Asera, l’incontro con Dio nel venticello di brezza e la visione da parte del ragazzo che lo seguiva, della nuvoletta che si innalzava dal mare. La siccità, castigo di Dio per l’infedeltà del popolo, durava ormai da tre anni ed aveva mandato in desolazione la terra d’Israele. Elia, uomo di preghiera ed interlocutore di Dio, Lo supplica perché termini il flagello e manda il ragazzo che lo seguiva, a guardare più volte verso il mare. La settima volta si vide levarsi dal mare una nube, grande come la palma d’una mano d’uomo. In poco tempo il cielo si oscurò, si levò un gran vento e cadde una forte pioggia. Gli esegeti e i mistici da sempre hanno visto in quella piccola nube, l’immagine della Vergine Maria: con la sua disponibilità all’Incarnazione di Gesù, infatti, si sono dischiuse le riserve di acqua feconda della vera vita e della Grazia. Tra i titoli con i quali la Chiesa onora la SS.ma Vergine, eccelle per devozione e popolarità quello di Madonna del Carmelo. Esso è legato agli Eremiti dei secoli IV-VII ed in particolare ad un gruppo di laici, pellegrini in Terra Santa, che tra la fine del 1192 e il 1209, si ritirarono in preghiera sulla cima del Carmelo per imitare Cristo, con lo stile del profeta Elia e il modello della Vergine Maria. Da essi nacque l’Ordine dei Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo che ebbe poi in S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce i riformatori dei cosiddetti “scalzi”. Lo scapolare donato dalla Madonna a S. Simone Stock, il privilegio sabatino confermato da Maria con una visione al papa Giovanni XII, la fioritura di tanti beati e santi tra le file dei Carmelitani e Carmelitane, lo sviluppo dell’Ordine Secolare Carmelitano testimoniano ancora oggi la bellezza e la fecondità di una spiritualità fortemente cristologica, che ha in Maria la via che porta a Gesù, la Santa montagna. P. Angelo Sardone

La preghiera diuturna

«Di notte anela a te l’anima mia, al mattino dentro di me il mio spirito ti cerca» (Is 26,9). La «Gaudium et Spes», costituzione pastorale del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, afferma che “l’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio” (GS 19). In ogni stagione della sua vita l’uomo vivente ricerca Dio, proprio perché si porta dentro la sua immagine, anzi è la stessa “gloria di Dio”: la sua vita consiste “nella visione di Dio” (S. Ireneo). In uno degli inni di ringraziamento presenti nella prima parte del libro del profeta Isaia, è contenuto un bellissimo salmo che, mentre afferma che il giudizio di Dio si compie secondo giustizia, assicura per il popolo la liberazione e le prove che fanno superare le difficoltà e preparano la rinascita. Di giorno e di notte l’uomo cerca il Signore spinto dalla sua innata forza spirituale che tende a farlo inabissare nel Dio di ogni grazia e consolazione. La santità della vita dell’uomo consiste proprio in questo: cercare il Signore, cercarlo sempre, in ogni ora del giorno, in ogni situazione, in ogni evento, in ogni persona. E Dio che si lascia trovare da chiunque lo cerca, non manca di elargire ogni grazia che determina la pienezza della vita e porta la vera gioia. Strumento eloquente ed efficace è la preghiera che, mentre esprime l’anelito a Dio, realizza con l’atteggiamento di abbandono e fiducia, una perfetta consonanza col mistero divino che permea l’esistenza e dà vigore all’anima ed allo spirito. P. Angelo Sardone.

Il giudizio di Dio

«Il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste contro le sue più valide milizie; sotto ciò che è sua gloria arderà un incendio di fuoco» (Is 10, 16). Nel cosiddetto Libretto dell’Emmanuele che abbraccia i capitoli 7-12 del profeta Isaia, è contenuta un’invettiva di Jahwé contro il re dell’Assiria, probabilmente Sennacherib e la sua invasione del 701. Senza saperlo questo re diventa nelle mani di Dio uno strumento per eseguire i suoi giudizi sul popolo d’Israele, una “verga del suo furore”. Ciò non toglie però che, pur non essendo cosciente del suo ruolo e della sua missione, il re di Assiria non abbia responsabilità, soprattutto in ordine al suo orgoglio. Infatti la Parola di Dio lo tratteggia come colui che si sente super intelligente, che rimuove i confini delle genti, che scava la ricchezza dei popoli, che mette a tacere tutto e tutti. Al Signore non piace la sfrontatezza di questo orgoglio: punirà il suo operato e la sua alterigia boriosa con la peste contro le sue milizie, quelle più valide, e metterà un fuoco sotto la sua gloria. La Sapienza di Dio torna puntualmente in ogni circostanza della vita del suo popolo di ieri e di oggi per combattere e punire le sbavature dovute ai facili ed illusori momenti di gloria, anche quando qualcuno si sente latore di una missione ben precisa. Dinanzi agli occhi di Dio ciò che conta è ciò che si è e non ciò che si ha. Bisogna sempre rapportarsi a Lui che abbatte i superbi ed innalza gli umili. Ciò determina anche l’opportuno buonsenso che non deve mai mancare nel parlare e nell’agire, anche quando si ha coscienza di essere strumento di bene, di annunzio, di punizione o di salvezza per gli altri. P. Angelo Sardone

La guerra siro-efraimita ed Isaia

«Il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento» (Is 7,2). Il grande profeta Isaia racconta i prodromi della guerra che passerà alla storia come siro-efraimita (731 a.C.) e gli darà la possibilità di pronunziare l’oracolo messianico che coinvolge la giovane donna che partorirà l’Emmanuele. In pratica due re, Resin re di Aram, e Pekach, re d’Israele, volevano coinvolgere il re di Giuda, Acaz, in una guerra contro l’Assiria. A quest’ultimo che aveva subito la marcia bellica dei due re riuscendo a contenerla a Gerusalemme, il Signore manda Isaia per tranquillizzarlo e non tenere conto dei due, avanzi di tizzone fumante, ed a rimanere saldo in Lui. «Fa attenzione, sta tranquillo, non abbatterti»: sono le parole-chiave di una esortazione divina a fronte del sopruso egemonico che è andato a male. Acaz comunque non sarà da meno, avendo chiesto protezione proprio al re di Assiria divenendone vassallo. Nella storia degli uomini si inserisce puntualmente Dio con la sua storia di amore e di lungimiranza in vista del piano di salvezza da realizzare sino alla fine dei secoli. É importante fidarsi di Dio, anche quando sembra che tutto remi contro e le potenze oppressive diventano molteplici e non danno speranza alcuna. Ciò è favorito maggiormente quando la propria coscienza è a posto e non si ha, come nel caso di Acaz, la macchia dell’offerta sacrificale al dio Molok della vita di un suo figlio. La libertà del cuore e la serenità della propria coscienza favoriscono l’accoglienza della sollecitudine amorosa di Dio salvatore. P. Angelo Sardone

San Benedetto da Norcia, un colosso di santità

«Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, allora troverai la conoscenza di Dio» (Pr 2,1-5). La letteratura sapienziale si esprime in maniera tipica nei 31 capitoli del Libro dei Proverbi, attribuito a Salomone che avrebbe pronunziato tremila proverbi (1Re 5,12). Esprime oltre la sapienza, la teologia pratica con uno sviluppo dottrinale. La liturgia odierna collega un significativo tratto sapienziale alla vita ed all’opera di uno dei santi più grandi e conosciuti, San Benedetto da Norcia (480-542), fondatore del monachesimo occidentale. Da giovane studente, avendo rifiutato la vita brillante di Roma si ritirò in solitudine in una grotta a Subiaco detta poi “sacro speco”, passando in seguito alla scelta di vita monastica ed in una nuova fase di maturazione interiore, a Montecassino dove impiantò una vera e propria scuola di servizio di Dio. I capisaldi della sua identità e missione carismatica sono la lettura meditata della Parola di Dio, la lode a Dio con la liturgia, il lavoro in carità fraterna ed il servizio reciproco. A lui si deve la formulazione della Regola, un codice di preghiera e di vita comunitaria con 73 capitoli nei quali tra l’altro, per la ricerca costante di Dio, viene chiesto di non anteporre nulla all’Ufficio divino ossia la preghiera liturgica, armonizzando il tutto con il lavoro. “Ora et labora” è il motto che qualifica il grande mondo benedettino sparso in tutti i continenti, che ha prodotto una lunga schiera di Santi e la qualificazione eccellente della dimensione orante liturgica. Davvero egli continua ad essere “un astro luminoso” (S. Gregorio Magno) anche nel buio del nostro tempo. P. Angelo Sardone

I comandi di Dio sono dentro di noi

«Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te» (Dt 30,11). Il libro del Deuteronomio è il quinto dei cinque libri di Mosè, il Pentateuco. Prende il nome dalla traduzione in greco delle parole “copia di questa legge”, seconda presentazione della legge. Contiene tre grandi discorsi fatti da Mosè per ricordare agli Israeliti le esigenze dell’alleanza con Dio fatta sul monte Sinai. Sono la sintesi delle vicende del deserto, l’impegno a rinnovare la fedeltà all’alleanza in cambio di benedizioni, le ultime disposizioni di Mosè ed il racconto della sua morte. Sul finire della sua missione il grande condottiero dopo aver convocato il popolo di Israele gli riferisce e ribadisce le esigenze proprie della relazione con Dio e di tutte le norme date da Jahwé. Il suo tono è perentorio: si tratta di ordini, comandi e decreti che richiedono obbedienza, osservanza e continua conversione nella totalità del proprio essere. I comandi di Dio sono proporzionati in termini di tempo e di spazio alla ricezione umana. In un certo senso Dio stesso previene il giudizio dell’uomo che facilmente si traduce in scoraggiamento ed impossibilità di osservanza delle leggi perché ritenute assurde, lontane dal comune modo di pensare e troppo difficili da essere tradotte nella pratica di vita. I suoi ordini non sono collocati in cielo, impossibili per essere presi, uditi ed eseguiti. Non sono oltre il mare, impossibile da navigare. Sono invece parole vicinissime, poste da Dio sulla bocca dell’uomo e nel suo cuore, pronte per essere messe in pratica. Queste verità non appartengono solo al vecchio popolo di Israele ma anche al nuovo popolo di Dio costituito nella e con la Chiesa di cui noi siamo parte integrante. P. Angelo Sardone

Eccomi, manda me!

«Il Signore diceva: Chi manderò e chi andrà per noi? Io risposi: Eccomi, manda me!» (Is 6,8). La storia di ogni vocazione nasce nel cuore stesso di Dio. La chiamata si esplica in avvenimenti particolari e con modalità singolari incastonati nel tempo ed in atteggiamenti diversi. Il Primo Isaia del 745 a.C. racconta la storia della sua vocazione cominciata in una dimensione mistica di rapporto e di dialogo con Dio. Il contesto è teofanico e paradisiaco: Dio sul suo trono sontuoso, alto ed elevato, ha un mantello che riempie di gloria tutto il volume del tempio. E’ attorniano dai Serafini, che inneggiano a Lui con la triplice acclamazione di «Santo, santo, santo». L’atteggiamento del giovane è di assoluto smarrimento, paura, confusione e presa di coscienza dell’impurità delle sue labbra e della sua vita. Ma tutto è sedato da Dio che invia uno degli angeli a purificare le sue labbra con un tizzone ardente. Viene quindi ammesso alla partecipazione al dialogo con Dio che sta parlando a voce alta e che chiede chi deve mandare per la salvezza del popolo. Purificato da ogni colpa il profeta si alza dalla sua prostrazione di peccatore e si mette a completo servizio dando la sua disponibilità: «Se vuoi, manda me!». In tale modello anche oggi spesso si rispecchia la vocazione sacerdotale e religiosa di tanti uomini e donne. L’indegnità e l’impurità delle labbra e della vita, proprie di ogni essere umano, sono superate dall’intervento divino che abilita al ministero ed al servizio anche coloro che si ritengono incapaci, ma che si affidano a Lui con tutto il cuore. Nelle Sue mani diventano così vasi di elezione e talora di straordinaria santità. P. Angelo Sardone.

Gli orfani di ieri e di oggi

«Presso di te l’orfano trova misericordia» (Os 14,4). La vicenda profetica di Osea, al pari degli altri profeti, si muove in un’ambivalenza: gli entusiasmi del popolo, le sue ribellioni e gli interventi di Dio che vogliono provocare il ritorno a Lui con tutto il cuore. Il popolo di Israele si dimena continuamente tra l’amore fedele a Jahwé e l’attrazione costante, illusoria e perniciosa degli idoli. La vita matrimoniale di Osea si ispira all’amore di Jahwé che, nonostante tutto, accoglie sempre il popolo fedifrago come fosse una prostituta, lo riconduce sulla retta vita e gli suggerisce parole adatte da adoperare nella sua preghiera. Uno dei passaggi evidenziato dai suggerimenti, fa riferimento agli orfani che trovano misericordia presso Dio. Questa categoria, insieme agli stranieri ed alle vedove, secondo la Legge di Mosè godeva di una particolare predilezione da parte del Signore. La storia dell’umanità é ricca della presenza degli orfani sia tradizionali, per la morte dei genitori, che moderni, vittime del disfacimento della famiglia e situazioni analoghe. Anticamente strutture come orfanotrofi, brefotrofi e simili si prendevano cura di essi. La Chiesa è stata sempre in prima linea con le sue istituzioni caritative, Congregazioni ed Istituti religiosi per accogliere ed assistere. In Italia, a seguito della moderna legislazione è sembrato come se con un colpo di spugna si cancellasse persino il nome ai numerosi orfanotrofi che operavano su tutto il territorio. Le Comunità religiose dedite a questo servizio, si sono adeguate ai nuovi parametri imposti e tante, inesorabilmente, hanno chiuso i battenti. La variazione di tipologia ha limitato il numero di ragazzi e ragazze nell’orbita assistenziale, ritenuta superata. Le Case di accoglienza, case-famiglia e tipologie similari hanno preso il posto degli antichi orfanotrofi, corredate da nuovi standard e professionalità laicali. Ciò è accaduto anche nelle nostre strutture. Si lavora insieme religiosi e laici per una carità che si colora sempre di misericordia. P. Angelo Sardone.